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June « 2005 « La Fabbrica dei Sogni
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Archive for June, 2005

Mr. & Mrs. Smith

Tuesday, June 28th, 2005 by

Lo dico fin dall’inizio. Sono andato a vedere questo film molto prevenuto. E’ che io quando si tratta di Angelina Jolie non sono capace di essere obiettivo. Per me potrebbe anche non fare altro che leggere le pagine gialle e andrebbe bene lo stesso. Figuriamoci dopo aver visto il poster del film.

Detto ciò, Mr. and Mrs. Smith è un filmetto che si lascia guardare con piacere (e no, non solo per Angelina). Funziona prima di tutto perchè non si prende troppo sul serio (Brad ha imparato bene la lezione del cazzaro dall’amico George). E poi perchè tra i due attori c’è un’intesa eccezionale, e non solo sul set a quanto pare. Brad e Angelina passano un paio d’ore ad ammiccarsi, guardarsi storto, picchiarsi, inseguirsi, spararsi addosso, tirarsi coltellate (metaforiche e non), beccarsi, ribeccarsi e, in generale, a divertirsi da matti. Non che ci siano dubbi, da queste parti, che la signora Smith è molto più in gamba del signor Smith eh? Il film strizza l’occhio a illustri (e meno illustri) predecessori come La Guerra dei Roses e True Lies, citano James Bond, Lara Croft e i tradizionali shoot-out movies di Sylvester e Schwarzy e anche se la storia è praticamente inesistente i protagonisti se la giostrano in modo abbastanza abile da non farci troppo caso.
Sesso, humor e violenza. Quale modo migliore di passare una serata in relax?

Your aim’s as bad as your cooking sweetheart… and that’s saying something!

Dune

Saturday, June 25th, 2005 by

Il capolavoro di Frank Herbert è da tempo immemorabile nella mia lista di libri di leggere, ma, per un motivo o per l’altro, qualcosa ha sempre avuto la precedenza. Quindi non sono in grado di giudicare quanto Dune di David Lynch sia fedele a quella che è stata definita “la risposta della fantascienza al Signore degli Anelli“. Posso però dire che se il progetto fosse rimasto nelle mani di Ridley Scott, invece di passare in quelle di Lynch, probabilmente il risultato sarebbe stato meno deludente. Però magari ci saremmo persi Blade Runner, chissà…

La saga di Dune è molto complessa sia per i suoi vari riferimenti all’attualità e alla storia, sia per le tematiche che tocca, alcune delle quali tremendamente attuali (Dune è un pianeta desertico, l’unico posto nell’Universo in cui si trova la preziosa Spezia, indispensabile per viaggiare tra le stelle. Suona familiare?). Inoltre Herbert creò un intero universo parallelo, con la sua storia, la sua politica, le sue razze e il suo gergo. Non che sia facile portare tutto ciò in un film, ma la sceneggiatura povera e un montaggio a dir poco amatoriale portano a un sicuro disastro. Perfino un grande come Patrick Stewart fatica con una recitazione sopra le righe (bravino anche Sting, anche se il suo ruolo è limitato).

Per essere un film del 1984 (Guerre Stellari è del 1977, Alien del 1979 e Blade Runner del 1982) scenografia ed effetti speciali sono patetici e inutilmente barocchi. E’ vero che Dune è volutamente low-tech (e allora che c’entrano queste futuristiche armi soniche?), ma anche la più scassata puntata di Star Trek dei primi anni ’70 faceva di meglio. Certo, i mostri di Rambaldi, sono bellissimi come sempre (d’altra parte è pur sempre il creatore di King Kong ed E.T.!), ma Lynch sembra essere più interessato a disgustare lo spettatore con scene splatter e atmosfere horror che snaturano ancora di più il film.

E dire che il progetto iniziale prevedeva scenografie disegnate da grandi nomi come H.R. Geiger e Moebius e la partecipazione di Salvador Dalì! Insomma, Dune è stata un grande occasione sprecata e la saga merita decisamente una seconda chance. Chissà che Sir Ridley non voglia tornarci su prima o poi. O magari il signor Peter Jackson.

He who can destroy a thing, controls a thing.

The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy

Sunday, June 19th, 2005 by

Trasportare in un film l’assurdo universo creato da Douglas Adams sembrerebbe impresa impossibile. Non solo non c’è una trama vera e propria (Adams stesso definì il suo romanzo “un lunga introduzione seguita da una improvvisa conclusione”), ma rappresentare sullo schermo tutte le cervellotiche, paradossali, surreali e sempre geniali trovate dei libri metterebbe alla prova perfino il più allucinato dei registi. The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy è uno di quei rari casi in cui il libro originale non è stato violentato dal film, in parte perchè Adams stesso ha lavorato alla sceneggiatura, in parte perchè è nato come spettacolo radio prima ancora che come libro e in parte perchè la storia è talmente vaga da essere un semplice pretesto per la più geniale parodia della fantascienza (ma non solo) che sia mai stata fatta. E il film è decisamente all’altezza, compensando con effetti speciali spettacolari (grandiosa la visita alla fabbrica di pianeti di Magrathea) le lunghe digressioni surreali di Adams, purtroppo impossibili da rendere sullo schermo.

Alla ricerca della domanda alla risposta sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto (nonchè di una tazza di the decente), tra Presidenti Galattici fuori di teste, robot paranoici in depressione cronica, topi, delfini, astronavi improbabili (letteralmente), seguaci di strane religioni “nasali”, autostrade iperspaziali, fabbricanti di pianeti specializzati in fiordi, ottusi burocrati alieni dalla micidiale poesia e autostoppisti galattici guidati dal libro più immensamente utile di tutto l’Universo.

Naturalmente non è solo una parodia dei luoghi comuni e degli stereotipi della fantascienza. E’ anche amore per i paradossi e i giochi di parole, e soprattutto satira sociale e di costume, come nella grande tradizione britannica di Lewis Carroll e P.G. Woodhouse. Sì, perchè il film (come il libro) andrebbe visto (letto) in lingua originale per poterne apprezzare in pieno le sfumature, le sottigliezze, i modi di dire, i giochi di parole, così tanto “inglesi” da dargli un’atmosfera tutta particolare che è un peccato perdere. Senza contare le bravissime voci di Stephen Fry (la Guida) e di Alan Rickman (Marvin il robot). Forse ci vuole un certo sforzo, anche se l’inglese del film è abbastanza facile, ma ne vale la pena.
E poi, come dice la Guida: Don’t Panic!

According to the Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, the best drink in the known universe is the Pan-Galactic Gargle Blaster. It has the effect of having your brains smashed out with a slice of lemon… wrapped around a large gold brick.

Sin City

Tuesday, June 14th, 2005 by

In genere posso bullarmi di avere un intuito abbastanza buono per i film e raramente mi sbaglio sulla prima impressione (o magari più che intuito è semplice culo). Quando ho visto il trailer di Sin City ho pensato: “o è una cagata pazzesca (fantozzianamente parlando, è chiaro) oppure è un figata assurda”. La seconda che hai detto, per fortuna.

Al di là del fatto che la storia possa o meno piacere (è così estremamente e gratuitamente violento da dare persino fastidio all’inizio), è di sicuro uno dei film più innovativi e creativi degli ultimi anni. Miscela in modo incredibile le tecniche digitali con un uso magistrale del bianco/nero e soprattutto del colore (anzi delle macchie di colore) e riesce a rendere alla perfezione il mondo di china creato da Frank Miller (il Maestro che ha resuscitato Batman, mica cazzi), a dare l’impressione del fumetto senza diventare un cartone animato. La trama è così fedele all’originale che i fumetti possono quasi essere considerati la storyboard del film (l’unica dolorosa assenza: il topless di Jessica Alba, sigh sigh!) e per chi ama il tratto e il disegno di Miller è una vera goduria per gli occhi.

Con un cast d’eccezione per le mani, tra cui meritano una citazione speciale un redivivo Mickey Rourke, un inquietante Elijah Wood e una Jessica Alba così bella da far svenire, Rodriguez (con lo zampino di Tarantino, bizzarramente accreditato come special guest director) si sbizzarisce a intrecciare tre delle storie di Miller (The Hard Goodbye, The Big Fat Kill, That Yellow Bastard più una citazione da The Customer is Always Right). Un mondo perduto di killer e prostitute, poliziotti corrotti, potenti e ricchi psicopatici, spogliarelliste e maniaci, perchè se svolti l’angolo giusto a Sin City puoi trovare di tutto. Una Città del Peccato dove tutti sono “cattivi”, soprattutto i “buoni”, e dove non esiste speranza o possibilità di perdono. E dove il riscatto può passare improbabilmente attraverso una puttana che ha l’odore che dovrebbero avere gli angeli e per cui valga la pena morire, per cui valga la pena uccidere, per cui valga la pena andare all’inferno.
Amen.

An old man dies. A young girl lives. Fair trade.

Bowling for Columbine

Friday, June 10th, 2005 by

Non posso inaugurare questo blog che con un film un pò fuori dal comune che mi è arrivato da una persona fuori dal comune (o fuori di testa fate voi).

Michael Moore è probabilmente uno dei registi meno capiti del mondo. L’intellighenzia europea nel suo spocchioso snobismo anti-americano a priori trova nei suoi lavori la conferma dei suoi pregiudizi, paradossalmente facendo lo stesso ragionamento dei conservatori duri e puri della destra americana. Ma Moore non è nè anti-americano nè poco patriottico, anzi è per molti versi il prototipo dell’americano medio. In Bowling for Columbine prende spunto dal massacro della Columbine High School (a Littleton, Colorado, il 20 aprile 1999 due ragazzi entrarono nella loro scuola armati di fucili mitragliatori e uccisero 13 studenti prima di suicidarsi) per discutere questioni scottanti e delicate, le armi e la violenza cronica della società americana. Che sia un regista con i controattributi si vede: montaggio magistrale, ottima scelta di scene d’archivio, gran commento musicale, provocazioni intelligenti e una buona dose di (auto)ironia, che non guasta mai. Ma il problema non è facile e si perde un pò per strada.

Moore non sembra mettere in discussione l’idea che il possesso di armi è un diritto civile, concetto che l’europeo medio trova incomprensibile ma che è saldamente alla base della democrazia americana, e si concentra piuttosto sulla relazione tra armi e violenza (perchè in America ci sono più omicidi per arma da fuoco che in tutto il resto del mondo civilizzato?), sul controllo delle armi (un conto è avere un fucile, un altro avere un mitragliatore pesante) e sul problema dell’accesso alle armi per i minorenni. Durante una visita in Canada, Moore riesce con poche scene (mitica la visita al ghetto e il giro per i quartieri di Toronto a verificare che le case non sono chiuse a chiave) a distruggere tutta una serie di luoghi comuni e sentenze propagandate da scribacchini da quattro soldi e psico-sociologhi del week-end e arriva direttamente al cuore della questione, introdotta da una serie di interviste a Marylin Manson, al creatore di South Park (che fa una interessante e spietata critica al sistema scolastico) e al produttore di Cops: il razzismo latente della società USA, il sensazionalismo e la violenza dei media, il business della paura che fa tanto comodo a imprese e politici (soprattutto dopo l’11 settembre).

Ma a questo punto perde la bussola. Perchè il discorso del razzismo andrebbe approfondito (non ci sono razzisti in altri paesi?), perchè manca di notare che i mezzi di informazione si comportano nello stesso modo dappertutto, perchè fa confusione tra la violenza dei privati e quella degli stati (che c’entra la guerra in Kosovo col massacro della Columbine?), ma soprattutto perchè si perde in una serie di discorsi sulla povertà, la disoccupazione e il degrado sociale di certe parti degli USA, che contraddicono quasi tutto quello che ha detto e mostrato in precendenza. Oppure scade direttamente nel populismo di bassa lega insinuando una improbabile relazione tra il Ku Klux Klan e la National Rifle Association o andando alla sede della Kmart per convincerli a non vendere proiettili nei loro supermercati (una scena che assomiglia in modo imbarazzante a una puntata di Striscia la notizia).

Alla fine ti lascia così, come altri lavori di Moore. Con un sacco di domande che ti frullano per la testa, pochissime risposte e anche un pò l’impressione che il regista, non sapendo più cosa dire, ha finito per fare un pò di confusione. Anche se, a volte, conoscere la domanda è più importante che conoscere la risposta.

I use the pen, because the pen is mightier than the sword. But you must always keep a sword handy for when the pen fails.