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Archive for January, 2006

10 Questions for the Dalai Lama

Friday, January 27th, 2006 by

Assistere a una anteprima di un film o un documentario indipendente, non ancora rilasciato al pubblico è certamente un privilegio. Se poi il regista (nonchè autore, produttore, editor e voce narrante) è in sala il privilegio è doppio. Se il regista ha smanie di protagonismo e ci tiene a fare un discorsetto all’inizio, a metà e alla fine, lo si può anche perdonare, in fondo è un indipendente che si è sbattuto parecchio e ci ha pure messo del suo per fare il film. Però se comincia a infilarsi dappertutto nel film, ad aggiungere le sue idee a quelle di chi dovrebbe intervistare e a propinarci la sua filosofia spicciola buonista-newage-noglobal, alla fine ti viene voglia di tirargli una fucilata in mezzo alle scapole. Con buon pace del Dalai Lama.

Dalai Lama Il tizio, Rick Ray fa quel lavoro che si vorrebbe fare tutti noi. Gira per il mondo e si paga la pagnotta producendo film. E’ pure bravo e la prima parte di questo film, in cui lui gira per l’India alla ricerca delle radici del Buddismo contiene scene veramente da mozzare il fiato. Ci sono incredibili filmati d’archivio del Tibet negli anni ’40 e ’50 e scene dell’invasione comunista, della repressione e delle torture dei tibetani. Molte cose credo mai viste in Occidente a causa della censura cinese. Poi si arriva a Dharamsala, la Piccola Lhasa, capitale del Governo Tibetano in Esilio. E si incontra un uomo, un semplice monaco si definisce lui, straordinario.

Ora, io il Dalai Lama non l’avevo mai sentito parlare. E mi ha completamente spiazzato. Quest’uomo che termina ogni risposta con un gran sorriso e poi scoppia in una sonora risata, smonta orologi per hobby (!) e legge coi piedi appoggiati al muro, si gira i pollici durante una cerimonia ufficiale e poi gioca coi fiori perchè si annoia, si diverte a tirare per la barba un prete ortodosso, fa battute sullo stato di polizia che opprime la sua gente e infine consiglia, in tutta serietà, di organizzare picnic per risolvere il conflitto israelo-palestinese (e per come te lo dice lui tu ci credi davvero che funzionerebbe) fa una impressione pazzesca ed è, semplicemente, GRANDIOSO.

Quando viene messo un pò alle strette, non si fa problemi ad ammettere onestamente che alcune delle sue stesse tradizioni sono obsolete e che ci sono serie limitazioni e problemi nella dottrina di non-violenza a cui ha dedicato la sua vita (e quella del suo popolo). Nè a dire senza esitazione che, anche se il Buddismo sostiene la sacralità di ogni vita, il controllo demografico è una necessità perchè troppe vite mettono in pericolo il benessere e l’esistenza di tutta l’umanità.
Non per dire, ma 30 anni fa l’Occidente andò in delirio per un “si sbalio mi corrigirete” (ormai diventato un “ze spagliate fi korregero”, ma va beh…), come se l’ammissione di poter fare anche un errore triviale fosse chissà quale rivoluzione. E il guaio è che lo era. Per noi, che siamo abituati a cosidetti leader politici e spirituali incattiviti e inaciditi, che si prendono tremendamente sul serio e così arroganti da pretendere di trincerare il mondo dietro le loro allucinanti e inumane posizioni, queste poche parole, semplici, ma pesanti come macigni, appartengono proprio a un altro mondo.
E invece no, forse è proprio arrivato il momento di realizzare che possono appartenere anche a questo, di mondo.

Il Dalai Lama ride, signore e signori. E, cazzo!, magari non sarà come la Garbo, ma ha lo stesso un effetto dirompente.

Match Point

Wednesday, January 25th, 2006 by

Secondo alcuni Allen si può solo amare o odiare, niente vie di mezzo, forse è vero. Per chi ama uno dei registi più controversi dei nostri tempi questo è certo un capolavoro.
Molto british, inquietante, realistico, ironico senza farti ridere, con un ritmo in crescendo che forse inzia un po’ troppo lento.
Il nostro eroe cattivo, Chris Wilton, con cui si stringe un patto di simpatia da subito è un maestro di tennis, un perfetto J. Rhys-Meyers, che si infila senza problemi nella ricca vita famigliare degli Hewett in quel di Londra. Entra a far parte della loro serena vita fatta di cene costose, Cartier, maglioncini di vigogna, champagne e opera. Si invaghisce della sorella del suo iniziale allievo di tennis ed amico, diventa dipendente del padre di lei, la sposa. Fin qui tutto si svolge tra i campi da tennis in erba verdissima, ville di campagna piovose e battute di caccia alla quaglia. Poi arriva qualcosa a riportarci nella realtà di tutti, una strepitosa S. Johansson nei panni di Nola, irresistibile futura cognata dell’eroe cattivo.
Succede il pervedibile: invaghimento dei due, passione, tradimento, bugie, la tragedia finale.
Forse lo svolgimento sembrerà scontato letto in questa pagina, non lo è. Allen ci racconta magistralmente la difficoltà di assumersi le responsabilità delle proprie azioni, ci spiega come una volta raggiunto il successo è assai difficile scegliere di lasciarlo. Ci racconta di reali situazioni che tutti viviamo o vediamo vicino a noi: vite basate sull’inganno, sull’opportunismo, sulla finzione, con la freddezza di un giocatore di pocker professionista.
Allen ci fa sentire vicini al cattivo eroe, al punto che vorremmo se la cavasse, nonostante sia palese il suo errore, fino alla fine si resta indecisi, non si vorrebbe la fortuna gli girasse le spalle.
Allen ci mostra infatti come la fortuna nella vita conti più del talento, molto di più.
Il colpo da maestro è il finale, che non voglio svelarvi, ma tenete ben presente la scena inziale del film. Una pallina da tennis in volo dopo aver sfiorato la rete può cadere al di qua o al di là della rete stessa. Di qua si perde, di là si vince. Nella vita di Chris Wilton è la stessa cosa: un anello lanciato nel Tamigi può rimbalzare contro il parapetto e restare sulla balaustra dalla sua parte: il nostro eroe perderà o vincerà?
Da vedere.

Chris Wilton: Hai idea di che effetto hai sugli uomini?
Nola Rice: Pensano che io sia qualcosa di molto speciale.
Chris Wilton: E lo sei?
Nola Rice: Nessuno ha mai voluto i soldi indietro!

Note dell’autrice: d’ora in poi dovrò prenotare e pagare due posti in più al cinema perchè sempre più spesso mi capita di avere vicini molesti. Stavolta i due geniali vicini avevano decisamente sbagliato film, immagino avessero visto una scena sexy nei trailers e si erano convinti fosse un film più leggero e diverso, alla VacanzediNatale, temo. A parte il fatto che la bocca di S. Johansson può lottare in sensualità con quella della Joile, certi sguardi poi lasciano senza fiato, ma non tutti sono capaci di emozionarsi e/o eccitarsi per uno sguardo, troppo complicato immagino. Detto ciò: prenoterò una sala intera la prossima volta, avere vicini che mangiano tre mastelloni di pop-corn, escono durante la proiezione per prendere cola e caramelle, ridono dove non c’è da ridere e urlano, è troppo per una cinefila come me, troppo, troppo. Che nervi.

Sophie Scholl – La Rosa Bianca

Saturday, January 21st, 2006 by

Riporto qui una recensione scritta dall’amico Blast!:

Sophie Scholl: locandina
SCHEDA: Titolo: Sophie Scholl – Die letzten Tage
Regia: Marc Rothemund
Produzione: Germania
Durata: 117 minuti

TRAMA: E’ la storia, quasi in forma di cronaca, degli ultimi giorni di vita di Sophie Scholl, una delle più conosciute (almeno in patria) eroine della resistenza al nazismo, dal momento dell’arresto, avvenuto a causa di un lancio di volantini nel cortile dell’università, e fino alla condanna a morte avvenuta appena 6 giorni dopo l’arresto. Il film è candidato agli Oscar nella categoria “miglior film straniero”.

COMMENTO: La Germania torna a pensare ad una delle pagine più dolorose della propria storia recente. Lo fa, questa volta, con un film che non lascia adito a dubbi, come poteva invece accadere con il recente “La Caduta”. Il film è quasi gelido nella struttura e nella implacabile scansione del tempo che passa. All’inizio vediamo poco o nulla degli antefatti, se non una misera riunione dei componenti de “La Rosa Bianca”, un gruppo clandestino che nel 1943 provocò parecchio scompiglio presso le autorità naziste, distribuendo 5 volantini per posta o abbandonandoli in luoghi pubblici, e criticando il governo nazista (inneggiando alla decandenza e abbattendo il morale del popolo tedesco secondo le autorità).
Vediamo i componenti, tutti studenti, che stampano l’ultimo loro volantino, e decidono di lasciarne una parte presso l’università di Monaco. Sophie e suo fratello Hans decidono di assumersi questo rischio.
In particolare una avventatezza di Sophie, che decide di lanciare dei volantini da una balconata nell’atrio dell’università sarà la causa della cattura da parte di uno zelante bidello. Un lancio di fogli bianchi, sicuramente un gesto liberatorio in un mondo dove è doveroso stare attenti a ciò che si pensa, può essere sufficiente per condannare qualcuno a morte?
E’ successo, e succede ancora così in molte parti della nostra disgraziata terra.
Il film, che quasi nulla racconta degli antefatti e di quello che è il mondo “là fuori”, analizza invece in modo chirurgico tutte le fasi della condanna: gli interrogatori da parte dell’ispettore Mohr, la carcerazione e le confidenze con una compagna di cella accusata di essere una comunista, il processo-farsa, la condanna a morte.
Il tutto ha però uno scopo preciso. Basta con i nazisti spietati portatori del male assoluto. Il film ha lo scopo preciso di mostrare come tutto il sistema fosse sostenuto principalmente dalla paura e non dalla reale adesione alle idee. Tutti i “cattivi” del film hanno un’inaspettato lato umano, spesso nascosto per bene, ma che il film con leggeri tratteggi riesce a far uscire allo scoperto. L’ispettore Mohr che all’inizio sembra inossidabile, a poco a poco si scioglie sotto gli sguardi di sfida di Sophie e a causa della sicurezza con cui lei porta avanti le sue idee di libertà. Mohr nasconde un lato umano insospettabile, che esce ancora di più allo scoperto quando si lascia andare a confessioni che riguardano la sua vita privata, con le sue paure ed incertezze sul futuro della sua famiglia. Il suo tentativo di autoconvincimento che le idee naziste sono in fondo giuste e che Sophie è in torto, nascondono la debolezza di un uomo che ha paura. Sarà il personaggio che, pur restando nella schiera dei cattivi, alla fine ne uscirà più redento.
Ma anche i personaggi minori nasconodono debolezze. Più di uno dimostra, anche solo con uno sguardo, di serbare disaccordo con le idee naziste, come succede per alcuni auditori del processo a “porte aperte” di Sophie e suo fratello, tutti soldati nazisti pronti ad applaudire o scandalizzarsi a comando, ma non tutti certi di quello che fanno; altri si sentono evidentemente imbarazzati per la codardia dimostrata in certe occasioni, soprattutto se confrontata col coraggio dell’eroina (è il caso dell’avvocato-fantoccio di Sophie il cui compito al processo è quello di stare zitto, ma con una evidente paura e ben celata voglia di parlare); infine il caso più eclatante, quello del giudice (un ex-funzionario comunista convertito alle idee naziste) che condanna i prigionieri, ed ha una paura folle di tutto e tutti, soprattutto che una sua mancanza di zelo possa a sua volta farlo segnalare presso le autorità, e quanto più ha paura della fermezza e convinzione delle idee dei prigionieri, tanto più la sfoga con grida ed improperi nei confronti dei condannati. La sua non è crudeltà o cattiveria, è terrore, una cosa ben diversa e più potente.
Alla fine il film pone tutto sotto un’ottica ben diversa da quella a cui siamo stati sempre abituati, perchè ci dice che quel regime (ma potrebbe riferirsi a qualsiasi altro regime totalitario), è stato così solido e distruttivo per anni principalmente non per la larga adesione alle idee da parte dei vari “strati” della società,che forse c’era totalmente solo agli esordi ed è venuta col tempo a mancare, ma più per una imposizione di uno stato di terrore. Fa davvero paura ripensarci, pensare che una condizione simile possa rendere stabile e duratura una follia evidente come quella del nazismo. Eppure è successo, la storia ce lo racconta e non solo per il nazismo. Quello che forse dovrebbe preoccupare ancora di più è che una condizione simile di terrore potrebbe rendere reali e stabili altre follie, anche in futuro….

A history of violence

Tuesday, January 17th, 2006 by

… ovvero, “che è accaduto a zio David”?
Film diretto da un irriconoscibile David Cronenberg, che in passato ci ha abituato a ben altro, e che ha trasferito i suoi temi più cari in un contesto forse già troppo utilizzato, e per questo un po’ deludente.
Dopo aver, nella sua storia cinematografica, raccontato di orribili mutazioni provocate dal dannato progresso scientifico (quasi sempre lui il colpevole e l’artefice di tutto, sia direttamente, agendo come causa prima della trasformazione come in “La mosca“, che indirettamente, agendo sulla psiche dei personaggi e modificandone il comportamento e la percezione della realtà, come in “eXistenZ“); dopo aver descritto il disfacimento del corpo umano a dare nuove forme organiche di vita (“Rabid“) o a dare nuove forme di percezione e conoscenza (il mitico “Videodrome“); dopo aver trasferito questi stessi temi dall’esterno del corpo umano, all’interno della psiche, descrivendo nei minimi dettagli i processi di demolizione e ricostruzione della realtà (“Spider” o il bellissimo “Madame Butterfly“, forse anche l’enigmatico ed oscuro “Il pasto nudo“), ora che resta?
Nel suo personalissimo percorso che l’ha portato ad interiorizzare via via sempre di più le sue fobie e paranoie, che hanno sempre posto attenzione al fatto che tutto ciò che si crede inviolabile, solido ed immutabile, in realtà è mutabilissimo, Cronenberg ci ha detto che il nostro corpo non è una casa sicura. Poi è arrivato a dirci che nemmeno il mondo in cui crediamo di vivere, la cosiddetta “realtà”, è una cosa sicura, perchè lo filtriamo tutto quanto attraverso la conoscenza data dai nostri sensi, che sono fallaci ed ingannabili per loro natura. Infine ci ha detto che neppure la nostra mente è una casa sicura, anzi che è proprio lei quella che ci gioca gli scherzi peggiori. Ora vorrebbe dirci che quella che crediamo essere la nostra identità, il nostro vero io, ebbene, nemmeno quello può essere una cosa certa e definita.
La storia è infatti quello di un buon padre di famiglia, la cui esistenza viene descritta in tutta la sua noiosissima tranquillità, fino al momento in cui dei gangster irrompono nel bar gestito dalla famiglia, e lui è costretto a difendere la sua e la loro tranquillità. Ma come è possibile che un uomo così buono e “normale”, possa trasformarsi in una così efficiente macchina di morte? E se è possibile, cosa mai può nascondersi dietro? Forse una identità segreta, tenuta ben nascosta in tutti questi anni? O qualcosa di più?
Da questa serie di inquietanti interrogativi, David Cronenberg parte per una delle sue spedizioni ai confini della realtà. Tuttavia questa volta mancano molti aspetti che hanno sempre reso i suoi film fastidiosi, disturbanti e profondamente inquietanti.
Nei film di Cronenberg viene sempre descritta una realtà che segue regole proprie. Gli oggetti e le persone che si muovono nelle sue storie, seguono regole fisiche e chimiche non corrispondenti al nostro mondo. I personaggi seguono regole sociali e morali ben diverse da quelle a cui siamo abituati noi, e che alcuni definirebbero come “moralmente ignobili”, e spesso anche percorsi psicologici e sentimentali che noi saremmo abituati a definire come “patologici”. E’ impossibile un processo di identificazione dello spettatore coi personaggi, e il regista non vuole certo fare questo. Anzi, il regista vuole essere una specie di documentarista, che con occhio freddo e distaccato ci vuole descrivere quello che accade nella “sua realtà”.
L’elemento di disturbo è dato, oltre che dagli orrori fisici, spesso descritti con cinismo e ricchezza di dettagli, e dalle elucubrazioni psicotiche che spesso si chiudono su se stesse senza dare alcuna via di sbocco, proprio dal fatto che il regista racconta tutto questo come se fosse normale. Non ne spiega il motivo, perchè non c’è niente da spiegare. Quello che viene mostrato è solo la realtà, una realtà normalissima, quasi noiosa, per il regista, mentre lo spettatore, abbandonato a se stesso, si rende conto che per lui non lo è affatto, e non sempre ne comprende le regole. Non c’è identificazione, c’è anzi la ferrea certezza che il regista stia semplicemente descrivendo una cosa VERA, e che noi troviamo incomprensibile se non ripugnante, mentre quella che viviamo noi tutti i giorni potrebbe essere una rassicurante menzogna.
Il senso di straniamento di fronte a questo è spesso molto forte, e in questo è sempre stata la bravura del regista, unico nel suo genere, che è riuscito negli anni ad elevare il genere “horror” al rango di genere filosofico da cineforum (ho visto coi miei occhi signore di mezza età sconvolte nelle loro certezze, discutere sul significato della parola “realtà”).
Tutto questo, anche se in forme molto edulcorate rispetto al passato, era ancora rilevabile nelle ultime produzioni; in “History of Violence” sembra sparire del tutto. Perchè il film comincia con qualcosa che non era mai stato fatto in precedenza, ovvero con un processo di indentificazione del personaggio principale con lo spettatore.
Il gioco di Cronenberg poteva essere geniale e quasi ancora più perverso dei precedenti. Poteva essere un:”Prima vi lascio credere di stare facendo un film normale, con personaggi normali, come non ne avete mai visti, e vi ci faccio identificare. Poi vi dimostro che quella che voi chiamate “identità” sono tutte balle!”.. Poteva farlo ma non lo fa. Manca del tutto la voglia di trascinare lo spettatore in qualche strano gioco mentale.
Alla fine resta un buon noir, a tratti stranamente ironico, a tratti noioso, che pone accento su alcune tematiche interessanti su cosa significa costruirsi una falsa identità, ed arrivare a crederci al punto da sentirla come la propria identità vera (relegando quindi l’identità precedente al ruolo di “falsa”. Ma se ci pensate bene questo non ha significato logico.. dire che esiste una “identità falsa”, è come dire che, gratta gratta, lo sono tutte). E soprattutto un interessante discorso su cosa sia la felicità e cosa significhi essere felici. Essere felici, come lo intendiamo noi, è solo un inganno? E’ solo una imposizione che ci diamo, applicandoci schemi precostituiti di felicità, o esiste davvero? Il film non da una risposta precisa, e il finale (che tende all’happy end) proprio per questo è a suo modo crudele. Ma questo non basta a far dire di aver visto un buon film di Cronenberg. Evidentemente stavolta zio David era andato a farsi un giro.. speriamo che torni presto! 😉

“Dovrebbe chiedere a suo marito dove ha imparato ad uccidere così bene le persone…”

Babette’s Feast

Thursday, January 5th, 2006 by

Con la pancia ancora piena dei banchetti di Natale e Capodanno, questo film mi sembrava molto adatto. E’ da tanto tempo che volevo vederlo: Il pranzo di Babette, da un libro di Karen Blixen. Io ho una passione smodata per i film “gastronomici”. Non (solo) per golosità, è che trovo affascinante l’intreccio della storia e dei personaggi con il cibo, il modo in cui questo si carica di significati e di simboli. Dopotutto cucinare e mangiare sono innanzitutto espressioni culturali e definiscono ciò che siamo più di ogni altra cosa.

Così il contrasto tra il cibo inconsistente e insapore di una minuscola comunità protestante ultra-puritana sulla costa danese e il cibo raffinato cucinato dalla cuoca francese in esilio è molto più che un contrasto tra odori, sapori e colori. E’ anche, ovviamente, lo scontro tra due modi di intendere la vita e il rifiuto di una cultura che santifica l’automortificazione e il sacrificio fini a sé stessi. Ma questa non è una storia antireligiosa come potrebbe sembrare a prima vista. Anzi, contiene numerosi riferimenti religiosi, a cominciare dal numero di partecipanti alla cena di Babette. E’ piuttosto una storia contro un certo modo di intendere la religione, e il cristianesimo in particolare. Se la vita è sofferenza, perché aumentare questa sofferenza arbitrariamente attraverso la privazione e il sacrificio invece di cercare di alleviarla grazie ai pochi piaceri che ci sono concessi? E che merito se ne potrebbe mai acquistare presso un Dio che ha creato tante cose buone e belle e ci ha dotato dei mezzi per apprezzarle? Vale per il cibo come per altre cose. Infatti il parallelo immediato è quello con l’arte. Non c’è davvero motivo per considerare uno dei 5 sensi più peccaminoso o scandaloso degli altri 4. Se l’arte è un mezzo per glorificare Dio, a maggior ragione può esserlo il cibo e non solo perchè è esso stesso una forma d’arte. In fondo, il Cristianesimo nasce proprio da una cena e se la salvezza passa attraverso pane e vino non potrebbe benissimo passare attraverso foie gras e champagne?

Ad ogni modo io ho deciso che non morirò prima di aver mangiato le cailles en sarcophages. Dopo averle mangiate ci penserò su; tanto che fretta c’è?

The Cailles en Sarcophages were a favourite of General Galliffet. The General had this rather interesting notion that this woman, this head-chef, had the ability to transform a dinner into a kind of… love-affair… yes, a love-affair that made no distinction between spiritual and other… appetites. General Galliffet said that in the past he had fought a duel for the hand of a desired woman. But now in all of France there was not a woman for whom he would risk his life with the exception of the Café Anglais chef.