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Archive for 2007

Sacco and Vanzetti

Sunday, August 26th, 2007 by

Sacco e Vanzetti verso la sentenza
Here’s to you Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph!

(Joan Baez)

Sono passati pochi giorni dall’80esimo anniversario dell’omicidio legalizzato dei due anarchici italiani Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, il 23 agosto del 1927 a Boston, Massachusetts. Per ricordare, volevo in realtà vedere il film del 1971 con Gian Maria Volontè e musiche di Morricone, ma era pretendere troppo dal mio spacciatore di DVD di fiducia, così mi sono preso un documentario.
La storia è nota, paradossalmente più in America che in Italia, dove si preferisce dimenticare il lato oscuro della nostra emigrazione (Mafia a parte). Erano i tempi in cui il nemico pubblico N. 1 di tutti i governi del mondo erano gli anarchici e l’Italia umbertina e borghese ne esportava in quantità esagerate. Erano i tempi in cui l’anarchia era considerata (a torto) una forma estrema di comunismo e in cui si poteva ancora pensare che la dinamite sarebbe riuscita a distruggere lo Stato oppressore. Ma erano anche i tempi in cui il Sogno Americano, alimentato da uno sviluppo vertiginoso, era più forte che mai.

Vanzetti e Sacco, dovevano ben presto scoprire un aspetto importante del loro sogno. L’America offre grandi possibilità, ma non aiuta nessuno. E’ generosa, ma spietata. Un paese di immigrati che teme l’immigrazione, un paese di libertari che idolatra le istituzioni statali, una nazione fondata sulla libertà e l’uguaglianza continuamente preda di tentazioni autoritarie e razziste. Contraddizioni che forse non sarebbero così stridenti se non fosse per quello che l’America vuole e dice di essere. Le disillusioni poilitiche e sociali spinsero Sacco e Vanzetti, e altri come loro, verso l’anarchia. Lo Stato era responsabile dell’ingiustizia e dell’oppressione, lo Stato avrebbe pagato.
Il film prende la vicenda soprattutto dal lato politico riflettendo sulla vita dei due come piccoli pesci di un movimento anarchico italiano, finiti tra l’incudine di una delle cicliche “cacce alle streghe” cui l’America va soggetta e il martello di una storia di gangster da Far West. Ma il processo contro Sacco e Vanzetti non fu soltanto politico. L’aspetto razzista viene un pò sorvolato, nonostante sia evidente (i testimoni a favore di Vanzetti vennero respinti come inaffidabili in quanto italiani) che abbia svolto un ruolo cruciale. Fu una combinazione di cose: erano radicali e anarchici, quindi bolscevichi e comunisti, italiani, quindi delinquenti e cattolici, quindi papisti, i demoni dell’immaginario collettivo protestante anglosassone.

Fu forse il primo processo mediatico della storia. Furono condannati perchè italiani? Perchè anarchici? Vanzetti era sicuramente innocente, ma Sacco forse era colpevole? Ha senso parlare di pregiudizio anti-italiano visto che i veri colpevoli erano molto probabilmente banditi italiani? In molti sensi, sono domande poco importanti. L’innocenza o la colpevolezza di un imputato è irrilevante quando un processo è così platealmente falsato. Disse l’avvocato difensore: An Italian accused of murder in Massachusetts stands about as much chance of a fair trial as a black man accused of rape in the South. Questo è il vero nodo della storia. La violazione e la sospensione dei diritti civili, delle garanzie legali, dell’habeas corpus, dei contrappesi costituzionali, di cui questo paese, che pure è stato creato su di essi, per essi e con essi, sembra sempre capace con angosciante disinvoltura ogni volta che si sente in pericolo, vero o percepito o indotto. Una volta erano italiani, cattolici, anarchici; oggi sono arabi, musulmani, terroristi. Quando certi principi vengono lasciati o fatti cadere, la legittimità dell’autorità cade con loro.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti volevano distruggere uno Stato che vedevano violento, oppressore e ingiusto. Uccidendoli, lo Stato gli ha dato implicitamente e paradossalmente ragione, nel modo più clamoroso possibile.

Sacco and Vanzetti lay bare a lot of mythology about American society, right? It certainly shows what America is supposed to be about and what it has been in certain circumstances.

This is not about Vanzetti. It is not a question of whether he was guilty or innocent. It’s about us.

Pulp Fiction

Wednesday, July 18th, 2007 by

Non sono certo io che devo mettermi a fare la recensione o gli elogi di un film che tutti e quattro i frequentatori di questo blog conoscono quasi a memoria. Ma questa visione è stata speciale. Prima di tutto perchè si trattava della versione americana non censurata (Pulp Fiction ha un mare di versioni, censurate e non censurate: quella americana non censurata ha almeno una scena in più rispetto a quella italiana non censurata. Non chiedetemi perchè, le ragioni dei censori, nonchè la loro stessa esistenza, vanno al di là delle mie capacità di comprensione). Poi perchè questa visione si è svolta in questo fantastico anfiteatro all’aperto. Il tempio adatto per un’orda di cultori e fans venuti ad adorare San Quintino, che quando è comparso Harvey Keitel e ha detto: I’m Winston Wolfe. I solve problems. sono scoppiati in un boato che l’hanno sentito fino sulle Grandi Pianure.

Che dire? Pulp Fiction è come tutti i (pochi) film di Tarantino una summa della (sotto)cultura pop americana, e quindi, ormai, mondiale. E’ il prodotto di qualcuno che ha passato buona parte della sua esistenza a lavorare in un videostore guardando tutto ciò su cui riusciva a mettere le mani. E che, allo stesso tempo (e forse anche per questo), è anche parecchio, ma parecchio, fuori di testa. Ne vengono fuori questi film che sembrano un frullato di interi generi cinematografici in cui tutto è esasperato ed eccessivo, la violenza verbale e fisica è così esagerata che nemmeno fa impressione e le storie così surreali che hanno persino un loro senso. Insieme a colonne sonore da paura e un montaggio delle scene che sembra fatto con un generatore di numeri casuali. Ma per far funzionare un tale casino non basta essere un regista coi controcazzi. Bisogna anche essere un fottuto genio.

Jules: Whoa, whoa, whoa, whoa… stop right there. Eatin’ a bitch out, and givin’ a bitch a foot massage ain’t even the same fuckin’ thing.
Vincent: It’s not. It’s the same ballpark.
Jules: Ain’t no fuckin’ ballpark neither. Now look, maybe your method of massage differs from mine, but, you know, touchin’ his wife’s feet, and stickin’ your tongue in her Holiest of Holies, ain’t the same fuckin’ ballpark, it ain’t the same league, it ain’t even the same fuckin’ sport. Look, foot massages don’t mean shit.
Vincent: Have you ever given a foot massage?
Jules: Don’t be tellin’ me about foot massages. I’m the foot fuckin’ master.
Vincent: Given a lot of ’em?
Jules: Shit yeah. I got my technique down and everything, I don’t be ticklin’ or nothin’.
Vincent: Would you give a guy a foot massage?
Jules: Fuck you.
Vincent: You give them a lot?
Jules: Fuck you.
Vincent: You know, I’m getting kinda tired. I could use a foot massage myself.
Jules: Man, you best back off, I’m gittin’ a little pissed here.
Jules: Look, just because I don’t be givin’ no man a foot massage don’t make it right for Marsellus to throw Antwan into a glass motherfuckin’ house fuckin’ up the way the nigger talks. Motherfucker do that shit to me, he better paralyze my ass cuz I’ll kill the motherfucker, know what I’m sayin’?
Vincent: I ain’t saying it’s right. But you’re saying a foot massage don’t mean nothing, and I’m saying it does. Now look, I’ve given a million ladies a million foot massages, and they all meant something. We act like they don’t, but they do, and that’s what’s so fucking cool about them. There’s a sensuous thing going on where you don’t talk about it, but you know it, she knows it, fucking Marsellus knew it, and Antwan should have fucking better known better. I mean, that’s his fucking wife, man. He can’t be expected to have a sense of humor about that shit. You know what I’m saying?
Jules: That’s an interesting point. Come on, let’s get into character.

e il prossimo appuntamento a Red Rocks è The Shining 😉

L’uomo dell’anno

Friday, June 1st, 2007 by

In una calda serata di maggio con grande soddisfazione mi concedo un filmetto da relax.
L’Uomo dell’anno non è infatti un capolavoro come Goodmorning Vietnam, non esilarante quanto Mrs.Doubtfire, forse non ne ha il ritmo, ma Robin Williams è sempre una piacevole compagnia.
Il film ci racconta qualcosa che in verità potremmo benissimo vedere nella vita reale, se solo fossimo più fortunati. Un comico molto pungente e ben informato, senza volerlo, semplicemente perchè una cosa tira l’altra, si trova ad essere candidato alle presidenziali statunitensi. Con pochissimi soldi, molto entusiasmo e geniali battute riesce a farsi strada fino alla votazione finale. Votazioni che si effettuano in modalità completamente automatizzata, niente carta e matita copiativa, basta pigiare un bottone sul video e il gioco è fatto.
Il problema è proprio il sistema di voto, un baco del sistema genera tutti gli accadimenti della seconda parte del film, compresa la comparsa di Laura Linney, convincente nonostante la parte un poco scontata fin da subito. Grandioso C.Walken nella parte del produttore in sedia a rotelle, cinico e leale. Con una faccia così la parte gli pareva cucita addosso.
Imperdibile l’ingresso del designato Presidente al Congresso, vestito da Luigi XV.
Il film, ripeto, non si scosta molto dalla realtà: siamo disposti a credere a un comico televisivo più che a un politico che abbiamo eletto e che ci dovrebbe rappresentare.
Questo dovrebbe farci riflettere, soprattutto di questi tempi.

Uno dei piccoli problemi dei film di R. Williams è l’intraducibilità di alcune battute: sarebbe da vedere in lingua originale. Intuibile per esempio una battuta persa nella traduzione sull’Old Glory, la vecchia gloria, riferimento alla bandiera americana che si perde senza molto senso.
Ve lo consiglio, divertente, semplice, che poi se vuoi ci puoi riflettere un poco; perfetto anche come home-dvd.

The Illusionist

Thursday, May 10th, 2007 by

In molte recensioni di questo piacevole film si legge del confronto con il più visto The prestige, confronto che si dice perso in partenza; io piuttosto trovo sia un parallelo poco calzante. Il punto in comune pare essere la prestidigitazione, il gioco di prestigio, è naturale, ma il senso dei due film è diverso, la logica, lo spirito stesso delle due pellicole non è comune.
Del primo ha già detto esaudientemente Yash, di questo che vi posso dire io?
Fine ‘800, in una splendidamente rivisitata Vienna l’illusionista Eisnheim, Ed Norton, riscuote uno strepitoso successo con numeri che vanno oltre l’umana spiegazione e tutto fila liscio finchè la polizia s’insospettisce di tanto successo, di alcuni numeri bizzarri e soprattutto fin quando l’innamorata d’infanzia del nostro illusionista torna d’improvviso nella sua vita. I guai si infittiscono e il nostro eroe si appropria dell’espressione che meglio viene a Norton: quella del cane bastonato dalla vita, stracciato nell’anima e senza molte speranze.
Jessica Biel, la nobildama amata, è bella, strepitosamente bella. Fine, per stavolta è perdonata, ma che non ricapiti. Menzione speciale per Paul Giamatti, nella parte del commissario di polizia che vuol capire, scoprire e infine difendere.
Il film è splendidamente girato, con un piacevole finale a sorpresa, musiche perfette e un effetto pellicola anticata che ti avvolge e rende perfettamente l’epoca storica. A mio parere è un’avventura romantica, fatta di sentimenti, magia, sorprese, soprusi e rivincite, un finale da Giulietta e Romeo molto ben confezionato. Forse non imperdibile, ma una bella serata.

Das Leben der Anderen

Saturday, March 31st, 2007 by

Ovvero, Le vite degli altri, il vincitore dell’Oscar come miglior film straniero di quest’anno. E’ un inquietante quadro della vita nella Germania Est: lungo, lento, grigio, pesante. Non è un difetto. Voluto o meno che sia, l’effetto è di creare un’atmosfera opprimente che trasmette tutto il senso del film: lo squallore, la povertà, l’angosciante onnipresenza del Partito e della Polizia Segreta nella vita di ogni suddito cittadino della DDR.
Basato su interviste a vittime ed ex-agenti della Stasi il film si concentra su una coppia di artisti di Berlino Est, messi sotto sorveglianza più per soddisfare un potente membro del Comitato Centrale del Partito che per effettiva “devianza” politica. Molto accurato nell’ambientazione e nei dettagli, a dieci minuti dall’inizio ci si ritrova dentro l’incubo orwelliano partorito da uno dei più rigidi regimi comunisti del dopoguerra.

Ciò che stupisce, e continua a stupire nonostante l’ampia pubblicità data dopo il crollo della DDR, è l’estensione dell’organizzazione messa in campo per contrastare il “nemico imperialista”. La Stasi impiegava 100mila agenti, che significa quasi uno ogni 200 cittadini. Un numero spropositato. Un sistema folle, che teneva letteralmente sotto controllo ogni singolo individuo, riportando in lunghissimi, e presumibilmente noiosissimi, rapporti tutti i più minuscoli e insignificanti dettagli della vita di ognuno. La cosa ironica (la Storia, si sa, ha un gran senso dell’umorismo) è che l’apparente successo di questo immane sforzo e dispiegamento di risorse umane e materiali era la manifestazione più evidente del fallimento disastroso del sistema che si proponeva di proteggere. Ma alla fine c’e sempre una crepa da qualche parte. Aperta dalla potenza dell’Arte, magari, o solo dalla disillusione di chi ci credeva veramente.

Gli immensi archivi in cui Georg si avventura alla fine possono apparire il pazzesco prodotto di una burocrazia impazzita, ma non sono un fossile o una curiosità storica. Non in tempi in cui si parla di Total Information Awareness come di una ragionevole (o necessaria) possibilità.

Sai cosa diceva Lenin dell’Appassionata di Beethoven? “Se continuo ad ascoltarla non finirò la rivoluzione”.
Può qualcuno che ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica essere davvero una cattiva persona?