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L’inquilino del terzo piano

Wednesday, December 29th, 2010 by

Se io mi tagliassi un braccio, poi direi “il mio braccio ed io”. Se mi tagliassi un piede, poi direi “io mio piede ed io”. Ma se mi tagliassi la testa… cosa direi? Che diritto ha la mia testa di chiamarsi “me”?

Un nuovo capitolo per la Fabbrica degli incubi: lo scarafaggio Trelkovski.

Da qualche tempo mi interessano i thriller psicologici, un genere che, come ho già avuto modo di scrivere nei commenti della recensione di Rosemary Baby, punta molto ad interiorizzare ciò di cui abbiamo paura.
Non so perché mi sia nato questo momentaneo interesse, forse dipende dal fatto che anche il cinema di paura sta esteriorizzando tutto. Ormai è così di moda far vedere sangue e budella al vento, che i film psicologici rischiano di risultare (ingiustamente) fuori moda.
In realtà i film psicologici sono i più micidiali. Possiamo chiudere gli occhi quando vediamo le budella al vento e questo le rende molto rassicuranti. Ma se ciò di cui abbiamo paura è dentro di noi, o è una parte di noi, non possiamo chiudere gli occhi e quindi non possiamo più dormire sonni tranquilli.
Penso sia esperienza comune aver avuto a che fare con film che ci hanno inquietato senza mostrare neppure una goccia di sangue o un pezzettino di budella. Anzi, mi viene quasi da dire che siano in realtà solo film di questo tipo ad essere davvero in grado di farci perdere il sonno.

Ci sono molti thriller ed horror psicologici che meriterebbero di essere menzionati come capolavori del loro genere, ce ne sono sia di vecchi che di nuovi. Dopo una combattuta riflessione (e dopo averne rivisto qualcuno), ho deciso per una via di mezzo. “L’inquilino del terzo piano” (classe 1976) merita a tutti gli effetti una posizione sul podio dei migliori thriller psicologici mai fatti. Un vero capolavoro, per molti motivi.

Ironia della sorte vuole che il regista sia il già citato Roman Polanski, qui forse al vertice più cupo e abissale della sua personale parabola rovesciata. Un po’ c’è da capirlo: l’infanzia sconvolta dalle deportazioni di massa durante il nazismo; l’arrivo negli Stati Uniti dove, dopo qualche successo iniziale, un tizio che si fa chiamare con il nome dell’anticristo gli massacra la moglie incinta; la fuga precipitosa dagli Stati Uniti con una accusa, considerata ingiusta, di plagio e stupro di una minorenne… dove si può rifugiare uno, a pochi anni da questi eventi, se non in un film psicotico?

Il risultato è kafkiano. Se Kafka fosse stato un regista, probabilmente avrebbe concepito i suoi racconti proprio così.
“L’inquilino del terzo piano” è un racconto completamente chiuso in se stesso, paranoico, surreale, inquietante, nero, senza uscita, dove non esiste e non può esistere alcuna spiegazione razionale all’assurda, innaturale ed illogica storia narrata, dove la struttura narrativa è invece imponente, indistruttibile, logica, ferrea, e diventa sistema. Il significato non c’è più, il messaggio sparisce, non è neppure importante trovarlo, perché è la stessa struttura narrativa senza senso a prendersi in carico di fare tutto, anche di comunicare il messaggio. Con risultati disarmanti.

Il messaggio, in questo caso, è una denuncia della società moderna che è straripante di regole e che in tal modo annienta e svilisce le singole persone, facendole diventare qualcosa che non sono e non sarebbero mai. Le trasforma tutte e poi le uccide, non risparmia nessuno. Ognuno a modo suo, tutti siamo plagiati e trasformati, quindi uccisi. La metamorfosi avviene in modo logico, seguendo determinate regole, in modo che il risultato sia sicuro, ma non avviene in modo lineare: semplicemente avviene facendo impazzire le persone, in modo che poi possano annientarsi da sole.
E’ la filosofia del “moriremo tutti” e “nessuno uscirà vivo da qui”, ma con molta follia in più.

L’inquilino del terzo piano potrebbe essere chiunque, uno di noi, un Gregor Samsa, uno scarafaggio qualsiasi. In questo caso è Trelkovski (il nome suggerirà qualcosa ai lettori assidui di Dylan Dog) un immigrato polacco che approda a Parigi in cerca di un appartamento in cui vivere, interpretato e doppiato in italiano dallo stesso Roman Polanski (con un fantastico accento slavo, aggiungerei).
L’inizio del film vede Trelkovski varcare la soglia di un arcigno e mastodontico palazzo anonimo di Parigi dove ha sentito dire ci sia una casa che è possibile affittare. La simpatia della portinaia e del padrone di casa palesano subito quello che sarà il tema portante del film, la difficoltà di avere un rapporto normale con gli altri. La precedente inquilina di questo appartamento, Simone, ha tentato il suicidio buttandosi dalla finestra qualche sera prima e al momento si trova in coma all’ospedale. Il padrone chiarisce subito che potrà occupare la casa solo se l’inquilina accetterà di lasciarla libera. Poi chiarisce quale dovrà essere il prezzo della casa e le regole da rispettare, in modo che il rapporto possa essere il più duraturo possibile: niente rumori molesti, niente feste, niente donne, niente sporcizia.
Trelkovski accetta il patto, e lo ritroviamo ben presto in trasferta all’ospedale per fare visita alla povera Simone, per informarsi delle sue condizioni e per capire quando potrà entrare nell’appartamento.
Simone giace in coma totalmente fasciata in un letto, da testa a piedi, ma nel momento in cui Trelkovski si avvicina al letto, lei apre gli occhi, lo guarda, sembra riconoscerlo ed inizia ad urlare.
Questa è l’occasione per Trelkovski di fare conoscenza con una amica di Simone, Stella, di cui diventerà ben presto amante. Dopo pochi giorni Simone muore e Trelkovski è libero di occupare il suo nuovo appartamento.

La vita nell’enorme ed oscuro palazzo fin da subito appare difficoltosa. I vicini sono odiosi, fastidiosi, si lamentano di tutto, soprattutto del rumore… e nel vecchio appartamento qualsiasi cosa fa un rumore insopportabile, dal rubinetto della cucina all’anta dell’armadio. Le pareti sono di cartongesso e sono piene di buchi e spifferi. Il pavimento in legno sembra scricchiolare da solo, anche se nessuno ci sta camminando su. E da qualche parte c’è sempre qualcuno che picchia dicendo di fare silenzio.
Esiste un solo bagno per ciascun piano e quello del terzo piano è quello più particolare di tutti: ha le pareti interamente ricoperte di geroglifici egiziani ed è quasi sempre occupato dai vicini di casa, che sembrano prendere la scusa dei bisogni corporali per chiudersi lì dentro a spiare Trelkovski (la finestra del bagno, per qualche strana legge metafisica, è situata proprio di fronte alla finestra del salotto di Trelkovski).
L’angoscia crescente, sottolineata da un uso particolare di lenti grandangolari che distorcono l’immagine dei lunghi corridoi e delle scale, viene suggellata da una serie di episodi inquietanti: una sera Trelkovski, dopo aver avuto un incontro-scontro con una vicina che gli chiede qualcosa di improbabile, mentre rientra in casa si sente strangolare da due mani. Però non c’è nessuno che lo sta strangolando…
Inoltre le persone attorno a lui sembrano rifiutare l’idea che Simone sia morta e cominciano a trattare Trelkovski come se fosse la povera Simone. Quando va al bar sottocasa nessuno chiede cosa Trelkovski voglia bere: gli portano una cioccolata, la bevanda preferita da Simone, e un pacchetto di Marlboro, le sigarette che lei fumava.
La situazione si fa surreale, i vicini si lamentano perfino del fatto che i ladri che hanno visitato la casa di Trelkovski, una sera in cui lui era a spassarsela con la sua nuova amichetta, hanno fatto troppo rumore mentre portavano via tutto. Trelkovski è spinto a sentirsi in colpa perfino per questo e a non sporgere denuncia alla polizia.
Inizia a parlare da solo (in una casa piena di specchi è la cosa migliore da fare), la sua ossessione è cercare di prevenire i vicini prima che possano lamentarsi di qualcosa e spostare i mobili di casa per trovare i buchi nel muro, da cui è convinto che qualcuno lo spii. In questo modo, in un buco dietro l’armadio che scricchiola, trova due denti umani avvolti da un batuffolo di cotone. A questo punto una nuova ossessione si aggiunge alle altre: trovare gli oggetti sepolti nei muri di casa sua. La crisi d’identità di fa più incipiente, tanto che Trelkovski inizia ad indossare un vestito di Simone, abbandonato nell’armadio scricchiolante, e compra una parrucca. Come se non bastasse, la situazione è aggravata da una imminente schizofrenia, che si palesa ed esplode una notte in cui Trelkovski, recatosi in bagno per un malore, dalla finestra vede se stesso nel salotto di casa sua, mentre si osserva con un binocolo dietro le tende per non farsi scoprire.

Pensate a qualsiasi disturbo psichiatrico… in questo film c’è. Schizofrenia, dissociazione, fuga dalla realtà (gli oggetti sepolti nei muri e i geroglifici egiziani in bagno), paranoia, disturbi della personalità, disturbi ossessivo-compulsivi (l’ossessione di prevenire i vicini, in modo che non possano lamentarsi di niente). C’è tutto e shekerato bene. E non pensiate che la spiegazione sia così semplice, come appare…
Il risultato è inevitabile: il tutto si richiude ed implode su se stesso, senza uno scopo o un fine. Ma è dotato di una incredibile struttura che rispetta fino in fondo le regole narrative, i tempi e i luoghi. Una struttura narrativa rigida, complessa, regolamentata. Addirittura logica, nonostante narri argomenti profondamente illogici e privi di senso.
Nonostante il film si risolva in qualcosa senza capo né coda, è dotato di un finale a sorpresa in grado di stupire, che è esattamente quello che ci si aspetta da questi film, rispettando così fino in fondo anche la principale regola narrativa di un film thriller.
Il risultato è schizofrenico, perché è logico ed illogico nello stesso tempo. E’ logico nella struttura, ma illogico negli intenti…
In pratica è come avere un enorme palazzo dall’architettura mastodontica ed imprevedibile, fatto per stare in piedi, ma perfettamente privo di qualsiasi altro scopo se non quello di stare in piedi.

E’ sbagliato pensare che sia tutto lasciato al caso e che il risultato possa essere casuale. Il film è al contrario molto studiato, tanto che è impossibile fare appiglio alla sua parte logica e ferrea per spiegarlo, e la cosa è probabilmente voluta.
Negli anni è stato passato al setaccio per tentare di trovare una spiegazione che possa dare un significato alla struttura, e soprattutto al finale. Sono state individuate tre o quattro probabili spiegazioni, dalla più razionale (che vede coinvolta la psiche dei due principali personaggi, in due spiegazioni distinte e opposte), a quella paranormale (qualcosa vorranno pur dire i geroglifici egiziani e i denti trovati nel muro), passando per quelle più improbabili.

La cosa più interessante è che nessuna di queste spiegazioni riesce a spiegare interamente il film, ma sempre e solo una parte di esso. Di solito riesce a spiegare qualcosa, ma è in contrasto con qualcos’altro. E le spiegazioni non possono coesistere, perché molte si annullano a vicenda. Di conseguenza è inutile trovare una spiegazione. E’ il palazzo che esiste solo per stare in piedi.

Però un messaggio c’è: che non c’è più niente di umano nel mondo d’oggi. E’ impossibile essere uomini, avere una identità, essere qualcuno o qualcosa.
E’ impossibile essere se stessi, in una società che impone regole capaci di massacrare e triturare chiunque. Dove si viene massacrati sia dalle regole, sia da chi è stato massacrato prima di noi ed è impazzito e si è snaturato prima di noi. Polanski ha creato un misterioso concentrato di tutto ciò che probabilmente gli faceva paura e che faceva parte del suo mondo interiore, e che un po’ fa inevitabilmente parte anche del nostro.
Un mondo che non è possibile smettere di guardare semplicemente chiudendo gli occhi.

Note particolari sui titoli di testa e coda (a rischio spoiler, da NON leggere se non ci si vuole rovinare il finale): da qualche tempo, anche io come Anna, sono affascinato dai titoli di testa e di coda dei film. Presi per quel che sono, hanno il solo scopo razionale di elencare chi ha preso parte alla lavorazione del film. Per questo, mi piace quando la struttura narrativa o il significato del film riescono a contaminare il mondo asettico dei titoli di testa o di coda.
La trovata che viene adottata ne ” L’inquilino del terzo piano” è particolarmente elegante, originale, ed è coerente con tutto l’impianto narrativo del film.
Alla fine di tutto, dopo la rivelazione che tutti si aspettano da un thriller, il protagonista lancia un urlo lancinante e la cinepresa sembra addirittura entrare nella sua bocca spalancata per perdersi nel buio della cavità. Il film si conclude con il logo della Paramount, senza titoli di coda. Uno dei finali più brutali, essenziali e veloci mai visti. La sorpresa, un urlo, il buio di una bocca spalancata, il logo della Paramount, si accendono le luci, prego accomodarsi all’uscita in fondo alla sala e buona notte a tutti. Nemmeno il tempo per razionalizzare…

Il motivo di una chiusura tanto brutale, in realtà è sotto il naso di tutti fin dall’inizio. Perchè i titoli di coda del film… stanno all’inizio del film.
Provate a guardarli. Nei “titoli di testa” c’è tutto quello che di solito sta nei titoli di coda. Molto dettagliati, c’è perfino il visto della censura americana, i ringraziamenti alla azienda produttrice della pellicola, la dicitura “qualsiasi fatto a persone, bla bla”.
Io sono arrivato alla conclusione che i titoli di coda stanno in testa al film, e l’inizio del film (di solito il logo animato del produttore), è stato messo in coda. Quasi a lasciare intuire che il film sia stato montato e scorra a rovescio.

Ah… la sensazione di inversione della linea temporale è un grave disturbo psichiatrico, tipico della schizofrenia… E la società odierna rende tutti un po’ schizofrenici. Ve l’aveva mai detto nessuno?

Machete

Tuesday, December 7th, 2010 by

You just fucked with the wrong Mexican.


Machete viene fuori da Grindhouse – Planet Terror, l’appassionato omaggio ai B-movies della coppia Tarantino-Rodriguez. Con questo curriculum alle spalle, i fuochi d’artificio sono praticamente garantiti.

Rodriguez è uno bravo e con la macchina da presa ci sa fare almeno quanto il suo compare. Ha assemblato un cast stellare che chiaramente si è divertito da matti, una bellissima colonna sonora mex-rock e ci ha perfino buttato dentro una specie di commento (a modo suo, naturalmente) sulla questione ormai critica dell’immigrazione clandestina negli Stati Uniti. Il risultato è un grandioso e spettacolare exploitation movie sotto steroidi.
Ci sono tutte le caratteristiche del genere: violenza, sesso, esplosioni, sparatorie, big fucking guns, infermiere sexy, ragazze che sparano in bikini e corrono sui tacchi a spillo, auto tamarrizzate, improbabili interpretazioni della forza di gravità e di altre leggi fisiche di secondaria importanza.
E’ difficile entrare nei dettagli: è tutto eccessivo, esagerato, sopra le righe, fuori misura, over the top, straborda da tutte le parti. Insomma è un gran casino e un gran divertimento, di quel divertimento sano da bambini che non ce ne è mai abbastanza di una cosa buona.

Mi resta un grave dilemma personale. Io credevo di avere almeno una certezza nella vita. Non era granchè, ma insomma era qualcosa. Adesso però non so più e sono tormentato dai dubbi. Non so scegliere.

un’altro che se na va…

Tuesday, November 30th, 2010 by

Non so che dire: quest’anno è un’ecatombe e pare che quasi tutto quello che ho scritto su questo blog siano stati necrologi.
Ieri, Leslie Nielsen, uno che mi ha fatto ridere fino alle lacrime e questa è la cosa più bella che si può fare a qualcuno.
Oggi, Monicelli, di cui posso solo dire che è stato un grande, un vecchio bastardo cinico e rude come solo certi grandi toscani sanno essere.

Prometto che prima della fine dell’anno scrivo anche qualcosa che non sia un elogio funebre, ma c’è una cosa più personale che vorrei dire. Sia Dennis Hopper che Monicelli sono morti di cancro alla prostata, la solita bestia stronza. Uno è stato così aperto nel suo supporto e uso della marijuana per alleviare il dolore ai malati terminali, da finire nei guai con la legge e la ex-moglie. L’altro si è suicidato, presumibilmente per risparmiarsi una lunga agonia, che in un paese molliccio e bigotto sarebbe diventata il solito melodramma pubblico. Casualmente colpiti dalla stessa malattia, mi piace pensare che si siano trovati compagni nella lotta per il diritto a essere malati e a morire con dignità e senza sofferenza.
E che abbiano insieme alzato un gran dito medio a chi vorrebbe imporre a tutti la propria rivoltante cultura della vita morte e del dolore.

Come vorrei che venisse fuori un funeralone da fargli prendere un colpo a tutti e due quelli lì: e migliaia di persone, tutte a piangere, e corone, telegrammi, bande, bandiere, puttane, militari…

RED

Saturday, November 27th, 2010 by

Robsom: “Sento il bisogno di prendere a sberle qualcuno!
Io: “Andiamo al cinema, si vede RED, vedrai che aiuta.

E’ andata più o meno così che siamo finiti a vedere questo “sparatutto” tratto da un fumetto. Non ho mai sfogliato il fumetto, quindi non so quanto sia fedele, ma adesso son curiosa per cui lo verificherò.
Il film di per sè é una piacevole distrazione del mondo reale, una storia di ex CIA, i RED (retired extremely dangerous) che cercano di capire perchè qualcuno li vuole tutti morti. Un film ben fatto considerato il genere ormai molto sfruttato, con qualche effetto fumettesco, per esempio le cartoline introduzione delle diverse scene, molte piacevoli esagerazioni, parecchie battute ad effetto e un cast:

  • Bruce Willis, senza canotta d’ordinanza, ma sempre grandioso, quando fa l’innamorato é cosi “tenero”
  • John Malkovic, un pazzo meraviglioso, va in giro con un maialino rosa portapigiama
  • Morgan Freeman, vestito da generalissimo africano è spettacolare
  • Mary-Louise Parker, carina e svanita da morire, ovviamente finisce nei guai
  • Helen Mirren, la adoro, con quel suo modo così britannico di essere, immaginatevela in abito da sera lungo, bianco e … anfibi!
  • Karl Urban, direttamente da Star Trek, assai materassabile, anche quando Willis gli “riarreda” l’ufficio (e la faccia) a modo suo.
  • Come già detto: uno sparatutto ben fatto, potete aspettarlo in dvd naturalmente, ma se dovete scaricare una giornata pesante e non avete voglia di andare in palestra il cinema é li che vi aspetta.

    Marvin Boggs: Why are you trying to kill me?
    Frank Moses: Look, why would I be trying to kill you?
    Marvin Boggs: Because last time we met, I tried to kill you.
    Frank Moses: That was a long time ago.
    Marvin Boggs: Some people hold on to things like that.

    The Dam Busters

    Sunday, November 14th, 2010 by

    Sempre perché siamo nella settimana del Remembrance Day ho deciso di vedere questo film. Lo consiglio, se siete in vena di film di guerra un po’ diverso da quelli più recenti, in bianco e nero e ricco di inglesismi.
    La storia forse é nota, ed é una storia di tecnica, di scienza, di testardaggine, di coraggio e di follia.
    Durante la seconda guerra mondiale le dighe tedesche diventano un’obiettivo per l’esercito inglese. Come abbatterle? problema di non facile soluzione, pensiamo ai mezzi del ’43 e alle protezioni che ovviamente l’esercito tedesco poneva a difesa delle dighe.
    Lo scienziato inglese Barney Wallis ci si intestardisce e inventa, tra problemi burocratici, finanziari e logistici, una tecnica rivoluzionaria: le bombe a rimbalzo. Come quando si fanno rimbalzare i sassi sulla superficie di un lago. Solo che sono bombe e devono essere lanciate da una precisa altitudine (meno di 20 metri dalla superficie dell’acqua), ad una precisa velocità, da una precisa distanza per finire sott’acqua proprio alla base delle diga ed essere alla fine efficaci.
    Com’é finita lo sappiamo, ma il bello di questo film non é soltanto la storia, interessante e affascinante, il bello del film é che é un film inglese del 1955, si vede e ciò é un bene. Non ci sono esagerazioni, non c’é smisurata boria, non c’é retorica, ma ci sono determinazione, la voglia di farcela, c’è il cameratismo tra ufficiali misurato e discreto, c’é una scazzottata sfogo e ovviamente ci sono un mare di “cup of tea”. C’é la normalità di uno squadrone che si addestra senza sapere l’obiettivo finale, ci sono i momenti di preparazione: chi scrive una lettera, chi si rade, chi legge, chi gioca a carte … il tutto con la tradizionale e assoluta calma britannica, perché semplicemente questo era il loro ruolo e non c’era niente di stravagante o eccezionale in quello che stavano per fare.
    Oltre alla storia, che merita di essere ricordata, la cosa pregevole di questo film é proprio questa sensazione di normalità, di senso del dovere non esagerato e fanatico, una cosa così tipicamente britannica.

    Poi c’é la marcia dei DamBusters:


    Ragionavo con Robsom sull’incredibile mancanza di un remake di questo film, perché la storia é aimè perfetta per un’esagerato film in stile Mel Gibson. Sono andata a verificare e in effetti i diritti per un remake Gibson li aveva acquistati anni fa, poi per nostra fortuna li ha ceduti. Al momento quel genio di Stephen Fry sta lavorando allo script della nuova versione, made in UK. Speriamo bene.