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Archive for 2010

Dino

Thursday, November 11th, 2010 by

Oggi, qualche ora fa, è morto Dino De Laurentiis. E’ stato un grandissimo produttore e uno dei pochissimi italiani che e’ riuscito a uscire dal suo piccolo angolino provinciale e affermarsi nella giungla di Hollywood. Vale la pena raccontare brevemente la storia, perchè è così che il cinema italiano è morto.

Tra il 1950 e il 1972 Cinecittà è stata la succursale europea di Hollywood. Grazie alla legge Andreotti, le co-produzioni italo-straniere potevano usufruire di incentivi statali, attirando un mare di soldi dall’America e dall’Europa. Roma era il centro della Dolce Vita (appunto) e Ava Gardner faceva girare tutte le teste di via Veneto e i capricci di Liz Taylor riempivano i giornali nazionali; era l’epoca di Ben Hur, Cleopatra e tanti altri colossal che hanno fatto storia.
Poi, nel 1972, in uno di quegli atti miopi e supremamente imbecilli in cui la classe politica italiana è specializzata, il Parlamento passava la nuova legge sui sussidi cinematografici, riservandoli alle produzioni 100% italiane. I produttori stranieri fecero le valigie e con loro i migliori tra gli italiani, come De Laurentiis e Ponti. E salvo poche occasionali fiammate di ritorno, di Cinecittà non rimane che l’ombra. E non c’è molto altro da dire tranne che questo:

Il problema dei registi italiani è che vogliono fare i film con un occhio alla critica. Noi però siamo show-man e dobbiamo fare film solo per il pubblico.

(Dino, accentando il Leone d’Oro alla carriera nel 2003)

De Laurentiis ha prodotto alcune della cose più belle del cinema degli ultimi 60 anni: Rosselini e Fellini, Monicelli e Steno, De Sica (padre, ovviamente) e Comencini (padre, ovviamente) e poi John Huston, Lumet, Pollack, Lynch… la lista è lunghissima e include immensi capolavori (Serpico) così come terrificanti schifezze (Dune di Lynch). Per non dimenticare il leggendario Barbarella.
Tra tutte queste produzioni, e visto che oggi è proprio l’11 Novembre, vorrei ricordare in particolare La Grande Guerra di Monicelli, una spietata satira agrodolce della guerra e del carattere nazionale:

the Unborn – il mai nato

Sunday, November 7th, 2010 by

Cosa succede se si mischia una trama originale con delle trovate tradizionali? viene fuori un film che non è un capolavoro, ma che resta comunque godibile, ben fatto nel suo genere.
Questo è “The Unborn”. Il classico film che punta a far venire paura per quei maledetti rumori nel buio della casa, o a far venir voglia di controllare meglio quel movimento che ci era sembrato di cogliere con la coda dell’occhio nello specchio.
Quindi ecco bambini cantilenanti, sogni ad occhi aperti, e qualche…effetto “Bu!” (avete capito cosa intendo, no? provate a fissare con una cinepresa una creatura con gli occhi chiusi: questa li spalancherà di colpo, per la gioia del pubblico pagante…o provate ad avvicinarvi lentamente, con la solita cinepresa ad una porta chiusa…cosa ci troverete dietro quando si spalancherà di botto? ecco cosa intendo per “effetto Bu!” ).
Ma se queste sono le componenti più classiche, tanto usate in un certo tipo di cinematografia – e che, per carità, anche qui non stonano, anzi: si va sempre sul sicuro, se le si dosa bene – l’aspetto più interessante (anche se pure questo non del tutto originalissimo) è la trama. Ora, quello che è il difficile per me è cercare di spiegarla, senza dire troppo.
Possiamo dire che il film inizia con la protagonista che sta facendo jogging lungo una strada in cui c’è solo lei…ad un tratto qualcosa attira la sua attenzione, ed è un bambino. Pallido, abiti vecchi, scure borse sotto gli occhi..dopo un attimo il bambino non c’è più, però seguendo una guida piuttosto insolita, la nostra trova qualcosa di inquietante..credo che mettendo insieme queste due righe col titolo del film, qualche dubbio ce lo si possa fare (non aggiungo altro, anche perché comunque attorno al 20esimo minuto i primi grossi dubbi saranno fugati…
Da qui in poi è un’escalation di allucinazioni ed incubi sempre più inquietanti, e di aberrazioni mostruose ed angosciati, ai quali si intervallano accenni di storia (vera, purtroppo, quando si parla del dottor Mengele), di scienza (ah, la genetica…ma di più non posso dirvi. Mi limito ad accennare all’esame oculistico che fa la protagonista nelle fasi iniziali della vicenda, perchè ha un pese non indifferente nello svolgersi della vicenda), superstizioni varie e mitologia ebraica…a proposito di cose inquietanti: sto cercando con google la definizione di un termine relativo a questa mitologia, non l’ho trovato, ma il primo link dice: “scanner della retina dell’occhio”…però!
Una nota di merito alla protagonista, Odette Yustman, che non avevo mai visto prima. Cosa di cui mi rammarico, perchè personalmente la trovo di una bellezza disarmante. Sicuramente questa prova non le avrà fatto vincere l’Oscar, ma non se l’è nemmeno cavata male. Ma una bellezza così pulita, così semplice, secondo me non è maschilismo sottolinearla, è un semplice dato di fatto.

Rosemary’s Baby

Sunday, October 31st, 2010 by

Oggi ho fatto il pieno di film. Poco fa, “the Shadow” (vedasi commento alla recensione di Yash), mentre nel pomeriggio mi sono guardato “Rosemary’s Baby” (nella distribuzione italiana, c’è il sottotitolo: “fiocco rosso a new york”).
E’ un horror del ’68 scritto per il grande schermo diretto da Roman Polanski (partendo da un romanzo di Ira Levin) e da lui diretto. Non è un thriller, non è uno splatter, rientra in pieno nella categoria dell’horror, pur senza mostrare nemmeno una goccia di sangue. Perchè ci sono cose che possono fare più paura di una lama affilata o di un branco di non-morti. E Polanski lo sa bene. E Mia Farrow lo aiuta benissimo a passare il messaggio.
Cerco di non dilungarmi molto sulla trama (anche perché ogni cosa che succede nel film è causa/effetto di qualcosa d’altro, ed indizio di qualcosa di ancor più grande). Brevemente, Rosemary e suo marito Guy (attore agli esordi con poca fortuna) cercano casa a new york, trovano un bell’appartamento e trovano come vicini di casa una simpatica coppia di anziani, magari un po’ invadenti, ma molto disponibili e premurosi.
Rosemary e Guy decidono di fare un figlio, e Guy individua quella che dovrebbe essere la notte migliore per cercarlo, ma a causa di una cena un po’ particolare, Rosemary sviene, e.. (volete sapere cosa succede? guardatelo! :D), beh, e pochi giorni dopo, è incinta.
E da qui preferisco non dire altro sulla trama, solo che è un susseguirsi di “segnali”, di piccole cose, di coincidenze (per lo più spiacevoli) per le quali Rosermary sta sempre peggio. Nulla è certo, nulla è chiaro, ma molto, moltissimo è ipotizzato, con un tasso di paranoia sempre più alto, che prende lo spettatore tanto quanto la protagonista. Fin quando, alla fine, tutti i tasselli si incastrano, tutto torna, terribilmente.
Direi che le armi migliori di questa pellicola siano appunto questo alto tasso di paranoia, che diventa sempre più destabilizzante, sgretola pian piano ogni certezza, toglie il concetto stesso di sicurezza, al punto che il dubbio diventa il nemico peggiore. O per lo meno, il più asfissiante, perchè di peggio c’è ben altro..
altra carta vincente di questo film, le scene oniriche, i balletti tra sogno e realtà che Rosemary affronta in un paio di circostanze, abilmente costruiti come dei sogni inquietanti…
Alla fine, se questo film è ancora così famoso a 42 anni dalla sua uscita nelle sale, un motivo ci sarà…oggi l’ho scoperto.

Shadow

Saturday, October 23rd, 2010 by

Di recente ho sostenuto la tesi per cui l’horror è diventato un genere assolutamente in voga, quasi preponderante nelle produzioni internazionali di mezzo mondo. Negli anni duemila, dopo quasi 15 anni di morte apparente, ecco che la realtà si fa meno rassicurante di come la si dipingeva negli edonistici anni ’80. La realtà all’improvviso si impregna di parole come “guerra” e “terrorismo”, ci si sveglia dal sogno e ci si ritrova catapultati in un mondo che è ben più brutto di quello che si era immaginato o sognato.
Di fronte a questo brusco risveglio, anche il cinema torna sui suoi passi, sfodera le armi migliori e riprende a sfruttare il suo potenziale, per andare a risvegliare il più atavico tra tutti i sentimenti umani, quello della paura.

Fino ad ora il cinema di mezzo mondo era andato dietro a questa ondata di terrore. Mezzo mondo tranne l’Italia. Proprio l’Italia, che negli anni ‘70 era stata una delle principali scuole a livello mondiale per il cinema di paura, da più di venti anni giaceva ancora sopita, avvolta nelle sue rassicuranti commedie sentimentali, nei film sui drammi generazionali e nella comicità da panettone.

E’ ridicolo che proprio l’Italia sia stata l’ultima a risvegliarsi dal letargo, ma finalmente qualcosa si è mosso. Non tanto perché Shadow costituisce di fatto il primo film horror italiano serio da venti anni a questa parte, in grado di tenere testa a molta produzione internazionale, sia per i mezzi utilizzati (di tutto rispetto), sia per il budget impiegato (segno che dietro c’era qualcuno che ci credeva), sia per il contenuto emotivo e metaforico.
Il vero dato di fatto da evidenziare è un altro, perché bisogna ammettere che non a tutti può piacere il genere e quindi non ci si può limitare ad esultare per la sua rinascita. Questo film può costituire un indizio sul fatto che finalmente siamo pronti ad uscire dal nostro bozzolo rassicurante fatto di piccoli drammi di tutti i giorni, di realtà provinciali, e siamo pronti a guardare in faccia alla realtà un pochino più grande e spaventosa, di quella che possiamo trovare nel nostro orticello. Il cinema è una specchio culturale incredibile, mostra quello che scorre nella testa e nel cuore delle persone. Il fatto che qualcuno, anche in Italia, abbia preso in considerazione l’idea di produrre e dirigere un film poco rassicurante, spero sia indice di un nuovo corso, in cui la voglia non sia quella di farsi solo cullare dal cinema, ma quello di analizzare la realtà, guardandola in faccia per quella che è.

E’ abbastanza stravagante che il primo italiano a volersi cimentare in grande stile sia stato Federico Zampaglione, già noto musicista, cantante e leader dei Tiromancino. Proprio lui che ci aveva abituato con la sua musica ad essere rassicurati da melodie sentimentali. Strano ma vero. Di recente Zampaglione si è riscoperto regista per passione (già era regista dei videoclip del gruppo) ed ha decisamente cambiato genere, sia con il suo film di esordio (Nero Bifamiliare, una commedia grottesca-noir) e ancora di più con questo Shadow, di cui ha scritto anche il soggetto e la sceneggiatura.

Un progetto del tutto originale, quindi, che parte dal punto più facile da cui potrebbe partire: rifacendosi ai gradi italiani del passato, come Mario Bava o Lucio Fulci, e “mostri sacri” nel mondo dell’horror come Non aprite quella porta”.

Altro punto fermo da cui ripartire era la realtà degli anni 2000. Realtà che il cinema avrebbe il compito di analizzare attentamente. Il film è diviso in tre parti molto diseguali tra loro e la prima parte è ambientata, pensa un po’… in Iraq.
Troviamo il protagonista, David, un ragazzo in missione in Iraq, mentre sta scrivendo una lettera a casa. Gli orrori della guerra sono troppi e troppo forti, sia quelli lontani che quelli vicini a lui. Si sa che spesso l’orrore ne chiama altro. Il desiderio è quello di fuggire anche dai suoi compagni e da tutta la situazione alienante che solo una guerra può portare.
Il desiderio presto si realizza, David torna a casa e si prende una lunga pausa di riflessione sulle Shadow Hills, una fantomatica località frequentata dai bikers, dai panorami mozzafiato, sita da qualche parte nel centro dell’Europa. Solo lui e la sua bicicletta, nei boschi, dove poter avere tutto il tempo necessario per dimenticare quello che ha visto e tornare a fare pace con il mondo. Su queste colline trova Angeline, una ragazza anche lei sola con la sua bicicletta e con il suo fardello di problemi da dimenticare, in cerca di un luogo dove poter fuggire.
I due inevitabilmente decidono di condividere questo solitario momento di fuga e per un po’ l’idillio sembra funzionare. Ma ben presto la realtà torna a chiedere il suo tributo di orrore. I due vengono prima presi di mira da due spietati cacciatori del luogo, che considerano quelle montagne come il loro territorio di caccia, i due ragazzi in bicicletta come le loro prede e l’attività di inseguimento come un macabro gioco. Così la fuga dalla realtà di trasforma in una fuga molto più materiale e meno figurata, un nuovo inseguimento e una lotta per la vita che si fanno sempre più estremi e senza senso.
Ma la fine di un orrore è solo il principio per un orrore ancora più grosso. Questo sembra voler sottolineare continuamente il film. E così, lo schema che si è già proposto nel passaggio tra la guerra in Iraq e la violenza senza senso tra i boschi, è pronto a ripresentarsi di nuovo quando tutti e quattro, sia le prede che i cacciatori, finiscono catturati da un essere misterioso che ha preso dimora nei boschi delle montagne di Shadow. Un essere tanto grottesco quanto disumano (che ruolo avreste fatto mai interpretare a Nuot Arquint, attore svizzero che nella realtà ha questa faccia qui?), che li incatena nella sua casa con il solo intento di torturarli, farli a pezzi e cibarsi di loro. I quattro dovranno inevitabilmente allearsi per poter fuggire, anche se l’impresa sembra diventare subito più grande di quel che sembra, visto che l’essere misterioso sembra avere della capacità che davvero non sono umane. Chi o cosa è davvero?

Finale azzeccato, che nei tre livelli di discesa agli inferi che il film propone, costituisce il vertice più basso. Forse non originale al 100%, ma comunque non così abusato da non sembrare originale.

Dal punto di vista tecnico il film non si risparmia. Come dicevo poco sopra, si vede che qualcuno ci ha creduto. Moltissime delle scene girate realmente nei boschi (anche scene di inseguimento molto veloci con i due protagonisti in bicicletta), sono tecnicamente eccellenti in ogni aspetto.
Lo stile è, come la storia, diviso in parti diseguali che impongono un crescendo emotivo, man mano che propongono un orrore diverso dal precedente. Prima l’orrore alienante della guerra, moralmente disgustosa, poi l’orrore fisico ancora più basilare, quello dell’istinto di sopravvivenza e dell’adrenalina di fronte ad una violenza che non ha un motivo, ed infine l’orrore metafisico di qualcosa che sfugge alla comprensione umana… quest’ultimo proposto nel film con uno stile lisergico ed alienato. La lunga scena dell’essere misterioso che lecca un rospo e finisce in preda alle allucinazioni mentre si prepara a torturare le sue vittime, è originalissima e da sola vale il biglietto. E fa capire che l’horror italiano sta provando a rinascere ed è partito con il piede giusto.

PS: una piccola nota, che può anche costituire una curiosità sul film. L’essere abominevole ha un nome, che viene rivelato solamente nei titoli di coda, nell’elenco degli attori e dei rispettivi personaggi. Il motivo per cui non viene detto prima del finale, ma solo DOPO il finale è facile da capire, tuttavia molti siti internet risportano bellamente il nome del personaggio. Forse era un motivo facile da capire, ma non da tutti…

Kill Bill Vol. 1 e Vol.2

Monday, October 18th, 2010 by

Sto per dire, o meglio ripetere, un’ovvietà totale: Tarantino é un genio! Scusate ma dopo una minimaratona fatta dei Volumi 1 e 2 di Kill Bill che altro potevo dire?
Come sempre in questo film, sì lo so sono due ma se non lo avete già visto al cinema separatamente io consiglio di vederli in sequenza, tutto rende meglio. E’ un’unico film e così va visto. Dicevo? ah sì, che come sempre da questo film si capisce, di nuovo, l’immensa cultura cinematografica di Tarantino, c’è probabilmente una citazione per tutto quanto, dai film classici giapponesi ai western finendo nei manga. Sì, c’é anche uno spezzone di fumetto manga dentro, c’é ed é perfetto perché racconta una storia nella storia, una storia crudele di formazione.
C’é una scena d’inverno, sotto la neve, in un giardino giapponese che sembra girata dentro una di quelle palle di vetro che se le girate scende la neve, un combattimento di per sè lento reso un ballo scatenato all’ultimo colpo con un flamenco di sottofondo che tiene sospesi dentro quella palla di vetro quasi natalizia.
Degli attori posso solo dire che Uma Thurman è the Bride, si vede subito che il personaggio le é stato disegnato addosso da Tarantino e da lei stessa. Il regista ha infatti sempre ammesso di non poter accettare nessun altro per il ruolo principale, per girare il film ha aspettato la Thurman, incinta quando Tarantino voleva iniziare le riprese, e ha poi disegnato con lei il personaggio. Un killer.
La storia la sapete e il titolo di per sè racconta tutto quello che c’é da sapere senza avere spoiler: una sposa deve avere la sua vendetta e uccidere Bill. Come si dedica a questa missione e soprattutto come Tarantino ce lo racconta é qualcosa che non si può descrivere é Cinema, è il motivo per cui si paga il biglietto, il motivo per cui alla fine del film si passano ore a spulciare citazioni, dettagli e non si smette per giorni. O forse siamo noi due ad essere anormali, lo so.
Una sola cosa ancora sento di voler dire, ci sono mille e mille inquadrature in questo film che sono perfette, sono scatti fotografici che incantano, sono scene studiate al millimetro, sono dettagli che, insieme a tutto il resto, fanno di Tarantino un genio. Non ho contato le volte in cui avrei voluto fermare il dvd per gustarmi la luce di un’inquadratura, troppe.
Quello che definirei un capolavoro. Troppo violento e splatter? come sempre é così violento ed esplicito che non fa più paura, tranne forse una scena claustrofobica. Poi ricordatelo: nei film di Tarantino ci sono sempre battute e scene di un’ironia tale per cui anche in mezzo a tutta la violenza la risata scappa sincera.