Warning: "continue" targeting switch is equivalent to "break". Did you mean to use "continue 2"? in /home/mhd-01/www.robsom.org/htdocs/lafabbricadeisogni/wp-includes/pomo/plural-forms.php on line 210

Warning: Use of undefined constant wp_cumulus_widget - assumed 'wp_cumulus_widget' (this will throw an Error in a future version of PHP) in /home/mhd-01/www.robsom.org/htdocs/lafabbricadeisogni/wp-content/plugins/wp-cumulus/wp-cumulus.php on line 375
thriller/horror « La Fabbrica dei Sogni
Warning: call_user_func_array() expects parameter 1 to be a valid callback, no array or string given in /home/mhd-01/www.robsom.org/htdocs/lafabbricadeisogni/wp-includes/class-wp-hook.php on line 286

Archive for the ‘thriller/horror’ Category

the Unborn – il mai nato

Sunday, November 7th, 2010 by

Cosa succede se si mischia una trama originale con delle trovate tradizionali? viene fuori un film che non è un capolavoro, ma che resta comunque godibile, ben fatto nel suo genere.
Questo è “The Unborn”. Il classico film che punta a far venire paura per quei maledetti rumori nel buio della casa, o a far venir voglia di controllare meglio quel movimento che ci era sembrato di cogliere con la coda dell’occhio nello specchio.
Quindi ecco bambini cantilenanti, sogni ad occhi aperti, e qualche…effetto “Bu!” (avete capito cosa intendo, no? provate a fissare con una cinepresa una creatura con gli occhi chiusi: questa li spalancherà di colpo, per la gioia del pubblico pagante…o provate ad avvicinarvi lentamente, con la solita cinepresa ad una porta chiusa…cosa ci troverete dietro quando si spalancherà di botto? ecco cosa intendo per “effetto Bu!” ).
Ma se queste sono le componenti più classiche, tanto usate in un certo tipo di cinematografia – e che, per carità, anche qui non stonano, anzi: si va sempre sul sicuro, se le si dosa bene – l’aspetto più interessante (anche se pure questo non del tutto originalissimo) è la trama. Ora, quello che è il difficile per me è cercare di spiegarla, senza dire troppo.
Possiamo dire che il film inizia con la protagonista che sta facendo jogging lungo una strada in cui c’è solo lei…ad un tratto qualcosa attira la sua attenzione, ed è un bambino. Pallido, abiti vecchi, scure borse sotto gli occhi..dopo un attimo il bambino non c’è più, però seguendo una guida piuttosto insolita, la nostra trova qualcosa di inquietante..credo che mettendo insieme queste due righe col titolo del film, qualche dubbio ce lo si possa fare (non aggiungo altro, anche perché comunque attorno al 20esimo minuto i primi grossi dubbi saranno fugati…
Da qui in poi è un’escalation di allucinazioni ed incubi sempre più inquietanti, e di aberrazioni mostruose ed angosciati, ai quali si intervallano accenni di storia (vera, purtroppo, quando si parla del dottor Mengele), di scienza (ah, la genetica…ma di più non posso dirvi. Mi limito ad accennare all’esame oculistico che fa la protagonista nelle fasi iniziali della vicenda, perchè ha un pese non indifferente nello svolgersi della vicenda), superstizioni varie e mitologia ebraica…a proposito di cose inquietanti: sto cercando con google la definizione di un termine relativo a questa mitologia, non l’ho trovato, ma il primo link dice: “scanner della retina dell’occhio”…però!
Una nota di merito alla protagonista, Odette Yustman, che non avevo mai visto prima. Cosa di cui mi rammarico, perchè personalmente la trovo di una bellezza disarmante. Sicuramente questa prova non le avrà fatto vincere l’Oscar, ma non se l’è nemmeno cavata male. Ma una bellezza così pulita, così semplice, secondo me non è maschilismo sottolinearla, è un semplice dato di fatto.

Rosemary’s Baby

Sunday, October 31st, 2010 by

Oggi ho fatto il pieno di film. Poco fa, “the Shadow” (vedasi commento alla recensione di Yash), mentre nel pomeriggio mi sono guardato “Rosemary’s Baby” (nella distribuzione italiana, c’è il sottotitolo: “fiocco rosso a new york”).
E’ un horror del ’68 scritto per il grande schermo diretto da Roman Polanski (partendo da un romanzo di Ira Levin) e da lui diretto. Non è un thriller, non è uno splatter, rientra in pieno nella categoria dell’horror, pur senza mostrare nemmeno una goccia di sangue. Perchè ci sono cose che possono fare più paura di una lama affilata o di un branco di non-morti. E Polanski lo sa bene. E Mia Farrow lo aiuta benissimo a passare il messaggio.
Cerco di non dilungarmi molto sulla trama (anche perché ogni cosa che succede nel film è causa/effetto di qualcosa d’altro, ed indizio di qualcosa di ancor più grande). Brevemente, Rosemary e suo marito Guy (attore agli esordi con poca fortuna) cercano casa a new york, trovano un bell’appartamento e trovano come vicini di casa una simpatica coppia di anziani, magari un po’ invadenti, ma molto disponibili e premurosi.
Rosemary e Guy decidono di fare un figlio, e Guy individua quella che dovrebbe essere la notte migliore per cercarlo, ma a causa di una cena un po’ particolare, Rosemary sviene, e.. (volete sapere cosa succede? guardatelo! :D), beh, e pochi giorni dopo, è incinta.
E da qui preferisco non dire altro sulla trama, solo che è un susseguirsi di “segnali”, di piccole cose, di coincidenze (per lo più spiacevoli) per le quali Rosermary sta sempre peggio. Nulla è certo, nulla è chiaro, ma molto, moltissimo è ipotizzato, con un tasso di paranoia sempre più alto, che prende lo spettatore tanto quanto la protagonista. Fin quando, alla fine, tutti i tasselli si incastrano, tutto torna, terribilmente.
Direi che le armi migliori di questa pellicola siano appunto questo alto tasso di paranoia, che diventa sempre più destabilizzante, sgretola pian piano ogni certezza, toglie il concetto stesso di sicurezza, al punto che il dubbio diventa il nemico peggiore. O per lo meno, il più asfissiante, perchè di peggio c’è ben altro..
altra carta vincente di questo film, le scene oniriche, i balletti tra sogno e realtà che Rosemary affronta in un paio di circostanze, abilmente costruiti come dei sogni inquietanti…
Alla fine, se questo film è ancora così famoso a 42 anni dalla sua uscita nelle sale, un motivo ci sarà…oggi l’ho scoperto.

Shadow

Saturday, October 23rd, 2010 by

Di recente ho sostenuto la tesi per cui l’horror è diventato un genere assolutamente in voga, quasi preponderante nelle produzioni internazionali di mezzo mondo. Negli anni duemila, dopo quasi 15 anni di morte apparente, ecco che la realtà si fa meno rassicurante di come la si dipingeva negli edonistici anni ’80. La realtà all’improvviso si impregna di parole come “guerra” e “terrorismo”, ci si sveglia dal sogno e ci si ritrova catapultati in un mondo che è ben più brutto di quello che si era immaginato o sognato.
Di fronte a questo brusco risveglio, anche il cinema torna sui suoi passi, sfodera le armi migliori e riprende a sfruttare il suo potenziale, per andare a risvegliare il più atavico tra tutti i sentimenti umani, quello della paura.

Fino ad ora il cinema di mezzo mondo era andato dietro a questa ondata di terrore. Mezzo mondo tranne l’Italia. Proprio l’Italia, che negli anni ‘70 era stata una delle principali scuole a livello mondiale per il cinema di paura, da più di venti anni giaceva ancora sopita, avvolta nelle sue rassicuranti commedie sentimentali, nei film sui drammi generazionali e nella comicità da panettone.

E’ ridicolo che proprio l’Italia sia stata l’ultima a risvegliarsi dal letargo, ma finalmente qualcosa si è mosso. Non tanto perché Shadow costituisce di fatto il primo film horror italiano serio da venti anni a questa parte, in grado di tenere testa a molta produzione internazionale, sia per i mezzi utilizzati (di tutto rispetto), sia per il budget impiegato (segno che dietro c’era qualcuno che ci credeva), sia per il contenuto emotivo e metaforico.
Il vero dato di fatto da evidenziare è un altro, perché bisogna ammettere che non a tutti può piacere il genere e quindi non ci si può limitare ad esultare per la sua rinascita. Questo film può costituire un indizio sul fatto che finalmente siamo pronti ad uscire dal nostro bozzolo rassicurante fatto di piccoli drammi di tutti i giorni, di realtà provinciali, e siamo pronti a guardare in faccia alla realtà un pochino più grande e spaventosa, di quella che possiamo trovare nel nostro orticello. Il cinema è una specchio culturale incredibile, mostra quello che scorre nella testa e nel cuore delle persone. Il fatto che qualcuno, anche in Italia, abbia preso in considerazione l’idea di produrre e dirigere un film poco rassicurante, spero sia indice di un nuovo corso, in cui la voglia non sia quella di farsi solo cullare dal cinema, ma quello di analizzare la realtà, guardandola in faccia per quella che è.

E’ abbastanza stravagante che il primo italiano a volersi cimentare in grande stile sia stato Federico Zampaglione, già noto musicista, cantante e leader dei Tiromancino. Proprio lui che ci aveva abituato con la sua musica ad essere rassicurati da melodie sentimentali. Strano ma vero. Di recente Zampaglione si è riscoperto regista per passione (già era regista dei videoclip del gruppo) ed ha decisamente cambiato genere, sia con il suo film di esordio (Nero Bifamiliare, una commedia grottesca-noir) e ancora di più con questo Shadow, di cui ha scritto anche il soggetto e la sceneggiatura.

Un progetto del tutto originale, quindi, che parte dal punto più facile da cui potrebbe partire: rifacendosi ai gradi italiani del passato, come Mario Bava o Lucio Fulci, e “mostri sacri” nel mondo dell’horror come Non aprite quella porta”.

Altro punto fermo da cui ripartire era la realtà degli anni 2000. Realtà che il cinema avrebbe il compito di analizzare attentamente. Il film è diviso in tre parti molto diseguali tra loro e la prima parte è ambientata, pensa un po’… in Iraq.
Troviamo il protagonista, David, un ragazzo in missione in Iraq, mentre sta scrivendo una lettera a casa. Gli orrori della guerra sono troppi e troppo forti, sia quelli lontani che quelli vicini a lui. Si sa che spesso l’orrore ne chiama altro. Il desiderio è quello di fuggire anche dai suoi compagni e da tutta la situazione alienante che solo una guerra può portare.
Il desiderio presto si realizza, David torna a casa e si prende una lunga pausa di riflessione sulle Shadow Hills, una fantomatica località frequentata dai bikers, dai panorami mozzafiato, sita da qualche parte nel centro dell’Europa. Solo lui e la sua bicicletta, nei boschi, dove poter avere tutto il tempo necessario per dimenticare quello che ha visto e tornare a fare pace con il mondo. Su queste colline trova Angeline, una ragazza anche lei sola con la sua bicicletta e con il suo fardello di problemi da dimenticare, in cerca di un luogo dove poter fuggire.
I due inevitabilmente decidono di condividere questo solitario momento di fuga e per un po’ l’idillio sembra funzionare. Ma ben presto la realtà torna a chiedere il suo tributo di orrore. I due vengono prima presi di mira da due spietati cacciatori del luogo, che considerano quelle montagne come il loro territorio di caccia, i due ragazzi in bicicletta come le loro prede e l’attività di inseguimento come un macabro gioco. Così la fuga dalla realtà di trasforma in una fuga molto più materiale e meno figurata, un nuovo inseguimento e una lotta per la vita che si fanno sempre più estremi e senza senso.
Ma la fine di un orrore è solo il principio per un orrore ancora più grosso. Questo sembra voler sottolineare continuamente il film. E così, lo schema che si è già proposto nel passaggio tra la guerra in Iraq e la violenza senza senso tra i boschi, è pronto a ripresentarsi di nuovo quando tutti e quattro, sia le prede che i cacciatori, finiscono catturati da un essere misterioso che ha preso dimora nei boschi delle montagne di Shadow. Un essere tanto grottesco quanto disumano (che ruolo avreste fatto mai interpretare a Nuot Arquint, attore svizzero che nella realtà ha questa faccia qui?), che li incatena nella sua casa con il solo intento di torturarli, farli a pezzi e cibarsi di loro. I quattro dovranno inevitabilmente allearsi per poter fuggire, anche se l’impresa sembra diventare subito più grande di quel che sembra, visto che l’essere misterioso sembra avere della capacità che davvero non sono umane. Chi o cosa è davvero?

Finale azzeccato, che nei tre livelli di discesa agli inferi che il film propone, costituisce il vertice più basso. Forse non originale al 100%, ma comunque non così abusato da non sembrare originale.

Dal punto di vista tecnico il film non si risparmia. Come dicevo poco sopra, si vede che qualcuno ci ha creduto. Moltissime delle scene girate realmente nei boschi (anche scene di inseguimento molto veloci con i due protagonisti in bicicletta), sono tecnicamente eccellenti in ogni aspetto.
Lo stile è, come la storia, diviso in parti diseguali che impongono un crescendo emotivo, man mano che propongono un orrore diverso dal precedente. Prima l’orrore alienante della guerra, moralmente disgustosa, poi l’orrore fisico ancora più basilare, quello dell’istinto di sopravvivenza e dell’adrenalina di fronte ad una violenza che non ha un motivo, ed infine l’orrore metafisico di qualcosa che sfugge alla comprensione umana… quest’ultimo proposto nel film con uno stile lisergico ed alienato. La lunga scena dell’essere misterioso che lecca un rospo e finisce in preda alle allucinazioni mentre si prepara a torturare le sue vittime, è originalissima e da sola vale il biglietto. E fa capire che l’horror italiano sta provando a rinascere ed è partito con il piede giusto.

PS: una piccola nota, che può anche costituire una curiosità sul film. L’essere abominevole ha un nome, che viene rivelato solamente nei titoli di coda, nell’elenco degli attori e dei rispettivi personaggi. Il motivo per cui non viene detto prima del finale, ma solo DOPO il finale è facile da capire, tuttavia molti siti internet risportano bellamente il nome del personaggio. Forse era un motivo facile da capire, ma non da tutti…

La città verrà distrutta all’alba

Sunday, May 9th, 2010 by

Onestamente non c’è nulla in questo film che faccia gridare al capolavoro (non la recitazione dei protagonisti, nè gli effetti speciali, nè tantomeno i dialoghi piuttosto scontati). D’altro canto, però, c’è da dire che non era facile tirare fuori qualcosa di nuovo dal filone già riccamente sfruttato (“l’ombra dello scorpione”, “virus letale”, “28 giorni dopo”, “io sono leggenda” , giusto per dire i primi che mi vengono in mente) dell’epidemia distruttiva.
In questo caso, però, non è tutto il mondo ad essere infettato, ma solo (forse) la cittadina di Ogden Marsh. Di conseguenza, come dice il titolo, la città deve essere messa in quarantena, ed eventualmente…sistemata in maniera radicale.
Se raccontassi altro circa la trama, rischierei di spoilerare troppo, ma credo non sia nemmeno difficile intuire cosa possa succedere. E se dico “Esercito”, l’ossatura del film si compone da sola, vero? E così come telai simili possono sostenere carrozzerie diverse, lo stesso vale per questo film: città infetta, interviene l’esercito…chissà che piega prenderà mai la situazione…
In tutto questo comunque c’è spazio anche per qualche citazione classica (l’arma del delitto che striscia su pavimento e/o parete, lasciando la sua scia di sangue), qualche trovata degna di nota (che non racconto per non bruciare la suspance a chi di voi magari guarderà questo film), e qualche goccia di miele (non so a voi, ma a me il buonismo holliwoodiano ha un po’ sfasciato gli zebedei).
Infine, leggo tra i produttori anche il nome di George Romero. Da un lato la sua firma in calce all’opera spiega molte cose…dall’altro, fa un po’ triste vederlo copiare da sè stesso, e copiare in maniera così approssimativa.
Ah, scopro ora, a cose fatte, che mai giudizio fu più appropriato: questo film è un remake dell’omonimo del ’73 diretto dallo stesso Romero.

Insomma, il giudizio finale al film è una sufficienza presa per il rotto della cuffia, diciamo che è un buon film da vedere senza impegno la domenica sera, giusto per chiudere in relax il weekend e tenere lontana l’idea che domani sarà lunedì.

Ah, piccola nota per il titolo: quello che da noi è “La Città verrà distrutta all’alba”, nella sua versione originale si chiama “The Crazies”. Ma le colpe di questo crimine si perdono nel tempo: anche l’originale del ’73 si intitolava “The Crazies”, ed anche quello fu ribattezzato nello Stivale: “La Città..” eccetera eccetera.

Shutter Island

Sunday, April 11th, 2010 by

“Dottor Sheehan, lei pensa sia meglio vivere da mostri, o morire da uomini per bene?”

Ovvero quando un film non è niente di nuovo sotto il sole, ma è fatto decisamente bene…

Shutter Island è la storia di due agenti federali (Leonardo di Caprio e Mark Ruffalo) che vengono spediti con un battello su un’isola che è sede dell’Ashcliff Hospital, uno dei manicomi criminali più grandi degli Stati Uniti, che ospita i pazzi criminali più pericolosi mai esistiti.
I due agenti arrivano sull’isola per investigare sulla scomparsa misteriosa di una pericolosa infanticida, Rachel Solando, che sembra essersi dileguata nel nulla dalla sua cella blindata, senza lasciare alcuna traccia. L’agente Daniels pare nutrire fin dal principio dei forti sospetti sulla veridicità delle dichiarazioni di medici ed infermieri, che sembrano nascondere (male) una verità scomoda.
Un uragano costringe i due agenti a protrarre il soggiorno sull’isola, durante il quale le indagini proseguono ed emergono particolari sempre più inquietanti, con una trama che riesce a rilanciarsi abbastanza spesso da far passare le due ore di film in un batter d’occhio.

Ci sono pazienti che sembrano essere più lucidi di altri e sembrano sapere più cose di quel che sarebbe loro concesso. Alcuni di loro sembrano suggerire più o meno esplicitamente ai due agenti di fuggire il prima possibile da Shutter Island, perché il rischio e che restino lì per sempre.
Altri pazienti, i più pericolosi, sono segregati nel blocco C dell’istituto, una specie di fortezza dove nessuno può mettere piede, a parte un numero ristretto di infermieri. Altri pazienti sembrano essere spariti nel nulla, negli anni, e il sospetto degli agenti è che nell’ospedale si conducano esperimenti illegali su nuove tecniche di lobotomia. E poi la storia profondamente inquietante di un ex-agente dell’FBI che anni addietro si era recato a Shutter Island per indagare sulla gestione dell’istituto, e che era finito rinchiuso come paziente nell’istituto stesso per sospetta schizofrenia e perdita di contatto con la realtà.
E ancora un nuovo rilancio della trama, già abbastanza contorta, con il ritrovamento di Rachel Solando che si dimostra essere qualcuno che gli agenti non avrebbero mai sospettato.

Come se non bastasse tutto questo, l’agente Daniels inizia ad avere delle visioni notturne che riguardano la moglie defunta in un incendio avvenuto in casa, e le sue esperienze di guerra contro gli ufficiali nazisti.

E qui bisogna dirlo. Queste sequenze oniriche, che intervallano il film, sono decisamente spettacolari. Hanno tutto quello che serve per renderle un cult: sono incisive, sono ricche di citazioni e simbolismi (come a dire che se interpretare i sogni ci aiuta a capire meglio la realtà, allora è giusto che i sogni siano così pieni di indizi, da raccontare più verità di quante non ne racconti il resto del film… quindi occhio, guardatele con attenzione perché non sono campate per aria), sono irrazionali ed insensate, hanno una buona potenza visiva ed emotiva e mescolano stili cinematografici diversi tra loro (si passa in pochi fotogrammi da un film sentimentale, ad un horror quasi splatter, e viceversa).

Siamo di fronte ad un classico thriller che ha l’obiettivo di inquinare le acque e di agitarle, spesso senza motivo, perché in questo modo tutto viene reso molto difficile da comprendere. La tecnica non è nuova. Se il film è fatto e confezionato molto bene, come in questo caso, è sempre piacevole farsi ingannare.

La storia ha taglio psichiatrico, che si presta molto bene a confondere ancora di più le acque, e permette un buon ritorno emotivo da parte di chi guarda.
Scorsese con gli anni sembra essere diventato un relativista assoluto, e non è nuovo a giochi di questo genere. Poco tempo fa ha cercato di dirci che “il bene e il male” sono concetti decisamente relativi. Possono addirittura scambiarsi i ruoli, senza che nessuna struttura morale venga alterata da questo scambio.

Ora cosa cerca di dirci, se non che la verità e la menzogna…. sono la stessa cosa? Perché verità e menzogna sono una costruzione della società e della mente, e quindi non sono concetti assoluti.

Sono una costruzione della società, perché chi decide chi deve finire in manicomio e chi no, se non la società stessa? E’ la maggioranza che decide cosa è normale e cosa è anormale, cosa è lucidità e cosa è pazzia. Chi deve stare da una parte o dall’altra delle sbarre. Chi è il medico e chi il paziente.

Sono una costruzione della mente, perché la mente umana cerca di mettere a posto tutte le tessere del mosaico in modo razionale, ma a volte lo fa sbagliando, ovvero mettendo delle tessere al posto sbagliato. L’importante è che alla fine tutto abbia una spiegazione logica, e che non ci siano tessere rimaste senza posizione (che equivalgono ad una spiegazione irrazionale della realtà), anche a costo di metterne qualcuna nel posto sbagliato.

Ci si ritrova a credere a qualcosa di palesemente falso, solo perché fa comodo crederlo, o peggio ancora solo perché è la struttura sociale a spingerci a credere che sia vero.
A volte la menzogna è comoda e ci fornisce un ottimo alibi per non accettare la realtà e a non combattere contro i fantasmi che crea. Il dramma sta nello scoprirsi essere umani che vivono completamente avulsi dalla realtà, e comprendere che questa è una difesa contro qualcosa che non piace.

Se noi guardiamo la piccola società che vive all’interno di Shutter Island, possiamo vedere una netta metafora che è uno spaccato della società umana.

Una pecca del film? C’è e non c’è allo stesso tempo…
La pecca potrebbe essere che la storia non è nuova, e nemmeno il tipo di inganno che nasconde. Alla fine, se uno bazzica un po’ film di questo genere, arriva a capire la sorpresa finale già a metà film.

Tuttavia, nonostante il finale esplicito a sorpresa possa non essere una vera sorpresa, il film lascia lo spazio ad una ulteriore interpretazione aggiuntiva, che invece è più intrigante perché è del tutto aperta ed irrisolta, ed è una possibile fonte di discussione fuori dalla sala, o a tv spenta.

Nonostante tutto, questo è un film riuscito per molti motivi e meritevole di essere visto, e che dimostra che un thriller non può basare se stesso solo sull’effetto sorpresa finale, come spesso molti thriller degli ultimi anni ci hanno abituato a credere.