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District 9

Wednesday, October 28th, 2009 by

“Venissero da un altro stato capirei, ma che vogliono? Non sono neanche di questo pianeta…” (un anonimo, intervistato in tv)

District_9_New_onesheet

Il film a primo impatto sembra un documentario di denuncia sociale, alla Michael Moore, con interviste e filmati di repertorio. Sembra, ma non è. Possiamo considerarlo un documentario fantascientifico? Forse… Sicuramente è un interessante esperimento cinematografico che vede il ritorno della fantascienza sui grandi schermi. In altri tempi un film del genere sarebbe stato un normale film drammatico di denuncia; nel 2009 qualcuno ha pensato di farlo diventare un film di fantascienza, metaforico all’ennesima potenza, dallo stile particolare e dai contenuti forti e senza compromessi.

La fantascienza è un genere cinematografico che per definizione avrebbe molte cose da dire. E’ il modo migliore che l’uomo conosce per vivisezionare il presente, pensando al proprio futuro. Quando l’uomo si interroga sul proprio futuro, fa una cosa molto importante. Se non lo fa, è una mancanza grave.
Negli ultimi anni la fantascienza non se l’è passata molto bene. Se dovessi citare qualche film di fantascienza degli ultimi anni meritevole di essere ricordato, farei fatica. Ormai sono di moda le riduzioni cinematografiche da P. Dick, che però spesso sono fatte alla “dick of dog” (mi si passi il brutto gioco di parole), e vanno molto i remake o i sequel di successi degli anni passati. In tutti i casi le idee più nuove che si vedono, e che vengono riprese dal mondo del cinema, risalgono agli anni 60-70. E’ un po’ che meditavo su questo aspetto: non abbiamo più niente di importante da dirci, interrogandoci sul nostro futuro?

Tutto quello che la fantascienza avrebbe da dire, ormai è stato delegato interamente al cinema thriller/horror, o ai cine-fumetti… è un segno dei tempi. Tutti hanno paura e preferiscono andare al cinema a vivisezionare le proprie paure piuttosto che interrogarsi troppo sul futuro, e tutti hanno bisogno di eroi, anche controversi ma ben identificabili, che sappiano sistemare le cose, per cui ecco che altri generi cinematografici si sono preoccupati di venirci a dire qualcosa di importante sul nostro presente al posto della fantascienza.
La fantascienza ha decisamente dormito sonni profondi, fino ad ora…

L’altra sera sono andato a vedere District 9, avendone sentito parlare molto ma senza aspettarmi troppo, e devo dire che le cose mi sono sembrate subito diverse dal solito. Pur essendo un film ben costruito e dalla messinscena molto forte e accattivante, dotato di effetti speciali abbastanza importanti, non era il solito film pieno zeppo di effetti fini a se stessi (che ormai non sono una novità, tutti sono capaci di farli, e per questo non possono più essere il fine ultimo di un film)… era qualcosa con un contenuto, delle idee, una metafora abbastanza forte, dal rigore morale fortissimo. E soprattutto era un film molto inquieto, fin nel midollo. E’ stata una bella sensazione.
Alla fine da un confronto con amici, è apparso evidente che la sensazione fosse comune: District 9 potrebbe essere l’ultimo rantolo di genialità prima della morte definitiva della fantascienza nel cinema contemporaneo, o un precursore per un nuovo inizio. Vedremo tra qualche anno che segno avrà lasciato, se avrà contribuito a lanciare nuove mode e nuovi spunti, o se sarà stato tutto un bluff.

La trama è abbastanza geniale e soprattutto semplice, potrebbe essere presa direttamente da un quotidiano qualsiasi e ci riguarda personalmente, procede in modo lineare e senza intoppi fino a dove si è prefissata di arrivare, come un treno che punta dritto contro un muro. Il risultato può essere doloroso, probabilmente non l’ideale per una serata di svago.

Il film pecca un po’ nello spiegare gli antefatti, e serve del tempo per iniziare ad entrare negli ingranaggi; lo stile finto-documentaristico, che ha un impatto iniziale molto forte, non sempre permette di far capire al 100% tutto quanto. Per fortuna la trama molto lineare e diventa accessibile non appena si è entrati “nel gioco”.

District 9 (US) F

Gli antefatti: siamo negli anni 80 e senza alcun preavviso una astronave gigante, che visivamente richiama i grandi classici della fantascienza degli anni 60-70, approda nei cieli della terra creando enorme scompiglio nella popolazione mondiale.
Stavolta, però, non si ferma sui soliti cieli americani e non ne escono i soliti alieni pronti a combattere e sopraffarci. L’astronave sembra malridotta, perde pezzi, si muove lentamente fino ad arrivare sui cieli di Johannesburg, dove si ferma a fluttuare a centinaia di metri sopra la città. A questo punto appare evidente che gli inattesi visitatori abbiano dei problemi, e poiché nessuna forma di vita sembra uscire dall’astronave e nessun canale di comunicazione viene aperto, il governo Sudafricano e l’ONU decidono di intervenire con una task force di elicotteri.
Quello che viene trovato sull’astronave è aberrante e sconvolgente: un numero imprecisato (si parla di 1 milione) di alieni mostruosi, viscidi, orribili, vengono trovati in uno stato di denutrizione e sporcizia totale, allo sbando, spossati, in piena anarchia e senza nessuna guida all’interno dell’astronave. Una ipotesi è che la perdita del modulo di comando, staccatosi dall’astronave giorni prima, abbia causato la morte di tutti gli ufficiali di comando. Altra ipotesi è che si siano suicidati per motivi ignoti.
Scatta l’emergenza para-umanitaria, gli alieni sono schedati, gli viene dato un nome, e sono trasportati sulla terra in un centro di “prima accoglienza” (eh già, si chiama proprio così. E’ da verificare se si tratti di una “trovata politica birichina” del doppiaggio comunista italiano o se sia originale).

Venti anni dopo, siamo all’inizio del film: gli alieni stanno sempre lì, parcheggiati in quella che è diventata una baraccopoli abitata da oltre 2 milioni e mezzo di alieni (che nel frattempo hanno cominciato a fare uova e a moltiplicarsi a dismisura), un ghetto chiamato “Distretto 9” (ogni riferimento al Distretto 6 realmente esistito a Johannesburg è puramente voluto).
Gli alieni non si sono integrati, non rispettano la legge umana, e anche se la loro inquietante lingua viene ormai capita dagli umani rendendo possibile una rudimentale comunicazione, gli uomini non gradiscono la presenza di quelli che chiamano con disprezzo “i gamberoni”.

Nel Distretto 9 regnano caos e anarchia. I gamberoni sono sfruttati dalla malavita locale per compiere rapine in cambio di scatolette di cibo per gatti (di cui gli alieni sono ghiotti) e dalla MNU, una multinazionale che gestisce il Distretto 9 e che detiene i diritti di sfruttamento della tecnologia alinea. Vi sembra assomigliare a qualcosa, la sigla MNU? Infatti, vi sembra bene… è diventata una multinazionale a scopo di lucro. Le armi aliene, in particolar modo, sono molto avanzate e potenti e per questo innescano le mire più abbiette di gruppi industriali e dei trafficanti di armi locali. Purtroppo (o per fortuna) queste armi, confiscate dalla MNU, non sono utilizzabili dagli umani perché funzionano solo se interagiscono con DNA alieno.

Ogni tanto i gamberoni scappano dal ghetto, facendo incursioni in città, dove si scontrano con le autorità umane e gli abitanti del luogo. Questi scontri portano altro risentimento e xenofobia, in una spirale senza fine. Arriva quindi l’inevitabile momento di spostarli lontano dalla città, con le buone o con le cattive, in un posto migliore, chiuso e ben recintato, dove la loro incolumità possa essere preservata meglio e dove le condizioni igieniche per i loro figli saranno migliori. Ma gli alieni non vogliono andarsene, non vogliono essere spostati o sfrattati, loro vorrebbero solo tornare a casa…

Per lo sgombero del Distretto 9 viene nominato capo squadra Wikus Van De Merwe, genero del capo della MNU. Wilkus è il classico ragazzotto ignorante, rozzo, insensibile, che viene dalla società bene, spinto da un forte senso del dovere. Dovendo scegliere da che parte stare, tra alieni oggettivamente repellenti ed esseri umani, il nostro istinto ci porta ad identificarci con quello che ci assomiglia di più (Wikus), e a ridere delle sue sopraffazioni inconsapevoli. Siamo portati quasi a giustificarlo in tutto, anche quando per gioco dà fuoco a uova aliene, perché tutto sommato è figlio della società marcia che gli sta attorno, quindi è giustificabile.

Il film, tuttavia, non si vuole limitare ad una semplice denuncia diretta del nostro razzismo inconscio. Il gioco all’inizio sembra molto semplice, ma il progetto è destinato a spingersi un bel po’ più in là.

Durante un sopralluogo ad una baracca in cui si sospetta ci siano attività aliene illegali, Wikus si rompe un braccio ed ingerisce per errore uno strano fluido nero. A seguito di disturbi sempre più fastidiosi, Wikus viene trasferito nell’ospedale militare, dove il medico di guarda gli toglie il gesso al braccio per scoprire che il braccio si sta trasformando in una viscida e tentacolare zampa aliena… dopo accurati esami, il responso è: mutazione genetica irreversibile.
A questo punto si scatena il delirio. Vikus è costretto a subire esperimenti brutali, per capire come sia potuta avvenire la mutazione e se possa essere controllabile e replicabile su altri umani, per poter sfruttare le armi aliene. La fuga diventa inevitabile nel momento in cui i vertici militari decidono di smembrarlo per scoprire qualcosa di più. Dove nascondersi? Ovviamente nel Distretto 9.

La mutazione genetica, progressiva ed inarrestabile, è sinceramente disgustosa: i riferimenti a “La Mosca” sono evidentissimi, voluti ed altrettanto fastidiosi (vomito nero, unghie che si strappano, denti che cadono, squame che appaiono da sotto la pelle, occhi che si spappolano, putrefazione… c’è un intero repertorio di immagini che si rifà palesemente al film di Cronemberg).

A questo punto il film scopre un po’ le carte, pur tenendo le migliori solo per il finale. La metafora si evidenzia un pochino: i mostri siamo noi, nonostante le apparenze, e dovremmo avere così schifo di noi stessi da aver paura a guardarci allo specchio. Pian piano la mutazione ci porterà ad assomigliare agli alieni, per scoprire che da qualche parte in mezzo allo schifo e ai tentacoli ci sono occhi pieni di nostalgia per casa. Niente a che fare con ET, comunque (e per fortuna)…

Il finale raggiunge l’apice, esplodendoci in faccia con una singola inquadratura che è la sintesi poetica, distillata e concentrata, di tutto… Tutto quello che “Io sono leggenda” non ha avuto il coraggio di essere, per manifesta imbecillità dei suoi produttori, lo si può trovare qui.

District 9, dunque, è fantascienza che prende spunto da stili e temi non usuali per la fantascienza, che si rifanno al mondo dell’horror, all’attualità, e ad alcuni classici della fantascienza o del cinema drammatico realista, girato con camera a spalla in “guerriglia style”.

cartonato_D9

Dal punto di vista stilistico, il film arriva a costruire qualcosa di abbastanza originale nell’insieme, e che sta in piedi per due ore senza risultare pesante. Fonde finti documentari, finti notiziari televisivi, sequenze cinematografiche classiche con commento musicale, frenetici e nervosi cambi di ritmo, riprese fatte col cellulare, punti di vista di videocamere a circuito chiuso, fino a giungere ad uno stile che nel complesso si preoccupa di raccontare in modo lineare gli eventi, ma non si cura di scegliere quali saranno le forme visive che dovranno raccontare una scena di azione, piuttosto che un momento di passaggio della trama. Le videocamere amatoriali come quelle professionali, i telefonini come le videocamere di sicurezza, tutto contribuisce al racconto della realtà. Tutto fa brodo, insomma. Volendo, ci si può individuare un preciso riferimento alla moderna società dell’immagine, che è pronta a triturare tutto dentro i suoi pixel, di qualunque apparecchio facciano parte.

Non so se possa essere un record per un film di fantascienza, ma nemmeno per un istante si riesce a parteggiare per un essere umano. O sono stupidi, o sono farabutti, o sono incredibilmente meschini, anche quando si scontrano tra di loro e sarebbe opportuno parteggiare per quelli “meno cattivi” o “più simpatici”. Gli alieni, con molta correttezza, non sono tutti dei santi (i farabutti li hanno anche loro), ma gli esseri umani proprio no. Anche questo modo di essere “politically scorrect” forse diventerà una nuova moda cinematografica, ma nel complesso alla prima è venuto proprio bene.

Il regista? Sudafricano, esordiente nel mondo del cinema, illuminato da un produttore intelligente (Peter Jackson), si è già fatto riconoscere e premiare più volte nel mondo della pubblicità.
Quando e come? Preparatevi a ridere… con questo, ad esempio.

Julie and Julia

Monday, September 28th, 2009 by

Consiglio: andate a vedere questo film subito prima o subito dopo una succulenta, ricercata e saziante cena, se no sono guai.
Questa pellicola fa venire voglia di imparare a cucinare, stimola costantemente senza pietà l’appetito, é pura droga per un blogger, essendo il film tratto da un blog, infine credo sia il primo o uno dei pochi film basati su ben due storie vere.
Le protagoniste sono due donne Julia Child e Julie Powell, entrambe pressoché sconosciute aldiqua dell’oceano.
Julia Child é più che famosa negli Stati Uniti per aver insegnato alle donne americane degli anni ’60 come si cucina, in particolare come si preparano piatti della tradizionale cucina francese, grazie ai suoi libri e soprattutto grazie a fortunatissimi programmi di cucina in tv. L’origine de “La prova del cuoco” se volete, con una sostanziale differenza che potete notare guardando un video originale: Julia Child non confezionava piatti perfetti e in cucina non si comportava come lo chef che era, ma sbatteva piatti e pentole ovunque, dava consigli pratici, spiegava le cose come le avrebbe spiegate la vicina di casa, senza pretese e con molto divertimento. La fisicità imponente, il tono di voce peculiare e l’assoluta incapacità di prendersi troppo sul serio, hanno probabilmente contribuito a fare di lei un personaggio. Meryl Streep nelle sue vesti é meravigliosa, impazza in ogni scena e interpreta Julia alla perfezione, rendendole giustizia nella fisicità massiccia anche grazie a qualche trucco di scena e di inquadratura.
L’altra donna protagonista é Julie Powell, interpretata da Amy Adams, dipendente governativa, trentenne, sposata, con il desiderio di concludere davvero qualcosa per una volta nella vita. L’idea folle che le viene é quella di prendere il libro di Julia Child, darsi 365 giorni di tempo e in questo tempo realizzare tutte le ricette riportate, tenendo un blog su cui raccontare i risultati del progetto.
Questa é la seconda storia vera narrata nel film.
Le due donne sono raccontate intrecciando le loro vite perfettamente, tra momenti comicissimi: la prorompente Julia Child che si iscrive all’esclusiva e compassata scuola parigina per chef “Le cordon bleu”, l’esile Julie che litiga con le aragoste, accanto a momenti di difficoltà profondi.
Due ore di film che scorrono senza momenti di noia, tra parecchie risate e molto, moltissimo cibo.

Se ci fate caso noterete che in generale é difficile far vedere persone che mangiano facendovi venire voglia di mangiare, perché spesso mangiare non é un atto elegante, lo stesso per le operazioni di cucina; qui invece é tale il godimento espresso nel nutrirsi o nel preparare il cibo che vi viene davvero voglia di mangiare una torta al cioccolato con le mani o di passare qualche ora della vostra vita a preparare un boeuf bourguignon!

“Never, never apologize!”

Drag Me To Hell

Monday, September 21st, 2009 by

Quando hanno intervistato Sam Raimi, chiedendogli come mai, dopo l’enorme successo della serie di Spiderman, con critica e pubblico concordi nel riconoscere la sua bravura anche in film spietatamente commerciali, ha pensato di tornare ad auto-produrre un film così piccolo e di nicchia, lui ha risposto: “perché avevo voglia di tornare a divertirmi, senza essere asfissiato da produzioni elefantiache, e senza spendere nulla”…

Purtroppo il grande pubblico conosce Sam Raimi solo per la regia di Spiderman e poco altro, quindi le parole dell’intervista avranno detto poco o nulla… ma a molti fan, che conoscevano i precedenti del regista, prospettare un ritorno all’horror “a-modo-suo” ha fatto venire molta bava alla bocca (bava verde da indemoniati, probabilmente).
L’attesa non è stata riposta invano, a mio parere il nuovo horror di Sam Raimi mantiene tutto quello che prometteva, soprattutto ai suoi fan della prima ora. Drag Me To Hell segna un ritorno agli esordi in tutti i sensi, sia per il budget impiegato, sia per i mezzi utilizzati, poco sofisticati ma allo stesso tempo efficaci.

L’esordio di Sam Raimi alla regia è stato uno dei più incredibili: con poche migliaia di dollari ha confezionato uno dei più clamorosi b-movie horror della storia del cinema (per la cronaca, “Evil Dead” in lingua originale, conosciuto come “La Casa” in Italia, perché anche nei b-movie abbiamo dimostrato in quegli anni un provincialismo veramente bieco). Realizzato letteralmente nei ritagli di tempo, partendo da una idea scritta davanti ad una bottiglia di vino con gli amici, e girato con gli stessi amici per un anno solo nei weekend e con mezzi di fortuna, ha ottenuto un risultato così incisivo, anche nello sviluppo delle tecniche, che in pochissimo tempo Sam Raimi è diventato uno dei registi più acclamati.
Anche perché, negli anni, ha dimostrato di saper dirigere con buoni risultati sia film d’avventura, che thriller psicologici, western, fino a film comico-demenziali pervasi da macabra ironia.

In Drag Me To Hell si vede molto degli esordi di Sam Raimi, dicevo. Innanzitutto si vede l’incredibile mistura di umorismo nero, ironia spietatissima che non guarda in faccia a nessuno (nemmeno ad una povera vecchietta con la dentiera e l’occhio di vetro), e pura cattiveria nei confronti dello spettatore, che si traduce in trovate cinematografiche violente, soprattutto per le coronarie di chi guarda. In definitiva, ecco un horror divertente e spassoso, di quelli che riescono a fare una paura fottuta, provocare un sano disgusto, ma anche strappare qualche macabra risata quando meno ce lo si aspetterebbe. Insomma, un horror tipicamente anni ’80 dallo stile molto retrò (i titoli di testa sono da b-movie gotico, fatto e finito), che risulta quasi innovativo in questi anni 2000, che hanno visto il genere horror appiattirsi irrimediabilmente verso uno stile espressionista iper-violento e praticamente privo di ironia, alla lunga molto scontato e ripetitivo.

Lo splatter è stato inventato negli anni ‘70, come sottogenere da b-movie con una forte carica provocatrice che andava contro certi tabù dell’epoca, ed era un genere alienante, inquietante ed asfissiante (vedere “Non aprite quella Porta” per credere).
Lo splatter è stato completamente re-inventato e ribaltato negli anni ’80, quando è stato investito dalla sacra luce dell’ironia proprio dallo zio Sam. La visualizzazione violenta e quasi “cartoonesca” del sangue l’ha inventata lui (vedere “Evil Dead 2” per ripassare questi concetti). Il ridere di uno schizzo di sangue o un occhio che esce dall’orbita… sono cose che ha inventato lui. Ridere della morte, ridere della distruzione del corpo, decontestualizzare così tanto la violenza, la paura e il terrore da renderli innocui, riuscendo nello stesso tempo a “disturbare”, dare fastidio, inquietare, non far dormire tranquilli… Tutto questo si è evoluto negli anni, ed è servito da riferimento ad altri maestri del genere e non solo, ma si è anche perso nel tempo, perché negli anni 2000 la violenza dei film horror non ha più nulla di ironico o “cartoonesco”, non ci si può più permettere di riderci sopra senza sentirsi come minimo in colpa, e l’obiettivo pare essere solo creare disgusto, senza nemmeno più preoccuparsi di dire qualcosa.

Per questo posso dire che, sì, c’è da essere contenti del ritorno all’horror ironico di Sam Raimi.

Tra l’altro la storia raccontata, ripescata da un copione vecchio di 10 anni scritto a quattro mani con il fratello, è di una attualità incredibile. Viene il sospetto che sia stata scelta apposta, per una certa finalità moralizzatrice. Nonostante l’horror venga spesso additato dagli stupidi come la prima causa dei mali del mondo, spesso ha una moralità molto forte: essendo in grado di suscitare emozioni intense, anche l’insegnamento che può dare sarà intenso…

In questo caso la nostra eroina (?) Christine Brown lavora in banca e spaccia mutui senza ritegno. E’ parte integrante di un mondo senza cuore e sentimenti, quindi è già condannata, in un certo senso predestinata e votata al male. Un giorno nega un mutuo ad una povera vecchia bavosa con l’occhio di vetro, facendo tacere la sua coscienza per compiacere il capo in vista di una promozione, il giorno dopo se la dovrà vedere con un demone che vuole papparsi la sua anima ad ogni costo.
Pare non esserci possibilità di redenzione, in un mondo pieno di gente che ogni giorno fa tacere la propria coscienza, permettendo a disuguaglianze e ingiustizie di perpetrarsi silenziosamente. Qualcuno dovrà pagare per tutti, e a mezzanotte arriveranno puntuali i demoni ad azzannare un bel mutuo subprime, spargendo industriali quantità di sangue e vomito, e liberando il mondo dal male vero. In un certo senso, il risultato è quasi liberatorio, se fosse così semplice da realizzare.

L’incipit del film è accattivante, il finale è intenso ed improvviso nella sua velocità e brutalità. In mezzo ci sono tutte le regole del genere: c’è quello che serve per far saltare sulla poltrona (compreso il crudele utilizzo delle steady-cam, che Sam Raimi ha affinato negli anni, e che proietta senza preavviso lo spettatore contro oggetti e facce mostruose, senza quasi avere coscienza di cosa stia succedendo) e quello che serve per disgustare tutti coloro che hanno la pessima abitudine di mangiarsi i popcorn al cinema, ma è tutto così sopra la righe da essere completamente fuori dai canoni del genere, pur rispettandoli. Nonostante la commissione censura ritenga sempre più spesso di “punire” la violenza di certi film horror con un VM 14 o 18, non ha ritenuto di inserire alcun divieto per questo film. Forse questo ci può indicare una certa presenza di classe?
No, non credo sia solo classe… Nella scena clou, quella più spaventosa (e lo è), in cui la medium viene posseduta dal demone e inizia a succedere di tutto e di più, è fantastico trovare un caprone indemoniato che ruota la testa di 360 gradi e urla alla protagonista: “mi hai inganna-a-a-a-to, maledetta putta-a-a-a-na!”. E’ liberatorio ridere in un momento così…

Nota 1: la Ford gialla del ’74 che appare nel film, è l’auto di Sam Raimi, che appare in tutti i suoi film, Spiderman compresi. In “Evil Dead” era l’auto dei 6 ragazzi protagonisti che arrivavano alla baracca nel bosco. Qui è l’auto della vecchia zingara. Lui la considera il suo portafortuna, visto il successo che gli ha portato.

Nota 2: Da tempo si vocifera un ritorno di Raimi alla saga de “La Casa”, quella vera (quindi tralasciando tutti i film apocrifi di produzione italiana che sono seguiti al secondo capitolo, e che nulla hanno a che fare con la storia). Sam Raimi ha detto che nel tempo libero sta preparando un abbozzo di sceneggiatura, ma che ora è troppo impegnato per pensarci seriamente. Siccome si vocifera che oltre a Spiderman 4, attualmente in lavorazione, sia previsto anche uno Spiderman 5, dobbiamo forse augurarci che Spiderman 4 sia un flop? I film della serie Spiderman non sono male, ma i fan vogliono vedere il 4 capitolo della serie “Evil Dead”, e che diavolo!

Star Trek (XI)

Thursday, August 27th, 2009 by

E’ passato un mesetto dall’anniversario dell’Apollo 11 (un piccolo passo per un uomo, space the final frontier, etc…) ed è passato abbastanza tempo da averlo digerito per bene, quindi parliamo un pò del nuovo Star Trek.

Diciamo la verità: Star Trek soffriva da tempo di stanchezza. E’ innegabile anche dai fan più ciechi, dopo il quasi-flop di Enterprise e il mancato successo di Nemesis, che pure non era tanto male.
Dunque, arrivati all’undicesimo film, che ci fosse bisogno di un pò d’ossigeno – o un polmone d’acciaio, a seconda di come la si vede – non ci piove: la questione è come farlo senza violentare svariati decenni di lavoro creativo, un immenso e complesso universo alternativo e senza sfornare l’ennesima megapuntatona che piglia solo i fan (che, per dire, a me sta anche bene, ma insomma…). Ricominciando a guardare avanti insomma e a indicare la strada come Star Trek ha sempre fatto fin da quando, in pieni anni ’60, piazzò una donna africana e un russo sul ponte di comando.

La soluzione di J. J. Abrams – nonostante legittimi dubbi su di lui – è di prendere il toro per le corna, e buttare tutto all’aria. Lo fa con una certa arroganza, ma anche con l’aria di chi sa dove mettere le mani. E il risultato, anche se può lasciare a volte perplesso, generalmente funziona. Grazie anche a quello che è da sempre uno dei cavalli di battaglia della serie, riesce a mettere insieme uno storia solida e consistente, senza essere autoreferenziale, e a innovare, senza distruggere. Date le premesse, questo è un buon risultato. Rispettare la tradizione, e lo spirito, non era per nulla un risultato scontato.

Ma è anche un buon film? USS Enterprise new bridge
Beh, dipende. Dal punto di vista di un trekker ci sono chicche incredibili e succose (i cannoni fotonici! l’espulsione del nucleo curvatura!) e cose orride da venire voglia di strapparsi gli occhi (che-minchia-sono-quelle-robe-da-power-rangers e perchè cazzo la sala motori sembra una fottuta latteria?). Senza contare inesplicabili quanto fastidiosi omaggi citazioni riferimenti a Guerre Stellari che sembrano proprio buttati lì tanto per. Capisco che tutto ciò possa lasciare indifferente lo spettatore “normale”, ma il fattore eye-candy (masturbazione visiva per trekker) è indiscutibilmente abbastanza elevato. Certo si sconta un pò il problema di ogni prequel di fantascienza: come mostrare una tecnologia meno avanzata di quella che si poteva far vedere negli anni ’90 (detto ciò la nuova plancia dell’Enterprise è bellissima oltre ogni dire).

Se la storia è un pò debole – e circonvoluta quel tanto che basta per forzare i paradossi e spingere l’intera baracca in un’altra direzione – la vera forza e il fascino di Undici sta nei personaggi e nelle loro relazioni, nel vedere come nascono e si sviluppano. Il livello di recitazione veramente ottimo (ad eccezione forse di Simon Pegg e Zoe Saldana, più per colpa degli sceneggiatori, che gli hanno assegnato parti troppo comiche o troppo decorative, che per colpa loro) riprende i modi di fare e dire dei leggendari attori della Serie Originale, senza trasformarli in imitazioni o macchiette. Questo è davvero un film corale, e il punto non sono paradossi temporali, astronavi, alieni e battaglie, ma persone che si trovano, si scoprono, lottano con sè stessi, con i loro fantasmi e con gli altri per diventare gli amici inseparabili di una vita.
Che poi è quello che Star Trek ha sempre saputo fare meglio.

Ah. E un paio di standing ovation al vecchio Leonard non gliele vogliamo fare?
Spock

What is necessary is never unwise

Inglouriuos Basterds

Monday, August 24th, 2009 by

Come e’ gia’ capitato per alcuni miei precedenti post questa non sara’ una recensione vera e propria, quanto un consiglio spassionato. La recensione di questo film richiederebbe infatti ore di meditazione, di ricerca dei dettagli, richiederebbe una seconda visione del film stesso, richiederebbe la (ri)visione degli altri precedenti film dello stesso regista e anche la visione di tutti i film a cui e’ ispirato, quindi accettate il consiglio e fidatevi: andate a vedere Inglouriuos Basterds.
Tarantino ha fatto un film degno del successo di botteghino che sta avendo, almeno qui un UK. Un film in cui ci sono talmente tante citazioni musicali e cinematografiche che spero di andare a rivederlo per riuscire a coglierle. E’ nel suo stile violento e splatter per certi versi, comico e grottesco per altri, se non vi sono piaciuti Pulp Fiction e Kill Bill evitate ovviamente, diversamente che ci fate ancora li? Filate al cinema.
Qualcuno ha detto che il film e’ troppo lungo, io proprio non me ne sono accorta, troppo intenso. Consiglierei la visione in lingua originale perche’ Tarantino, tra l’altro, ha compiuto un miracolo su Brad Pitt, l’attore recita con un temibile accento del Tennessee, tanto difficile e pesante che la recensione della BBC suggerisce che potevano sottotitolare anche la sua parte! Infatti tutti i caratteri del film che non sono americani non sono tradotti ma sottotitolati (come quasi sempre in UK), per cui i nazisti parlano in tedesco, i francesi in francese … e quando Pitt deve fingersi italiano la sua parlata e’ meravigliosa! Non so davvero come potranno tradurre questo film, mi dispiace, meta’ della bellezza sta nel linguaggio certe volte. Converrete poi che gli ordini di un kapo nazista sentiti in lingua tedesca hanno tutto un altro suono, meta’ della paura che fanno deriva dalla durezza della lingua tedesca … una malattia della gola piu’ che una lingua.
Dicevo? ah, si, vedetelo in lingua originale se vi riesce.
Fate attenzione ad alcune manie tipiche di Tarantino: piedi di donna, ci sono sempre e sono piedi normali, femminili e visti da vicino, poi le donne di Tarantino, sempre vere, mai troppo giovani, reali insomma, bravo.
Aggiungerei la presenza dell’immancabile mexican standoff e la mania per girare con la telecamera vorticosamente intorno alla scena, da mal di stomaco imminente, la scena si “ferma” proprio un secondo prima che la nausea vi colga, malefico Tarantino!
I colori di certe sue scene sono cosi vivaci da ricordare certe locandine di B-movies degli anni 80, da godersi la scena finale nella regia del cinematografo, luci e colori da fumetto, un indimenticabile tono di rosso.
Infine l’idea che si dovesse lasciare ai nazisti sopravvissuti qualcosa che li rendesse riconoscibili come tali anche una volta tolta la divisa non e’ affatto male, nonostante la crudezza insostenibile del gesto.

Concludo, un po’ come disse Eco dopo aver scritto “Il nome della rosa”: “avevo voglia di assassinare un monaco“, secondo me Tarantino aveva voglia di uccidere un po’ di nazisti, dategli torto.

Lt. Aldo Raine: You probably heard we ain’t in the prisoner-takin’ business; we in the killin’ Nazi business. And cousin, Business is a-boomin’.