Non posso dire che l’ultima opera di zio Steven mi abbia deluso. Non posso nemmeno dire che mi abbia entusiasmato.
Tecnicamente (quasi) perfetto (come sempre), solo che, conoscendo lui e il soggetto così politicamente sensibile, mi aspettavo un approccio un poco più emotivo. Invece è didascalico, quasi freddo. Diciamo anche che Eric Bana piacerà pure alle donne, ma non è proprio questo attorone, il che non aiuta di certo.
Spielberg è un regista troppo esperto perchè questo non sia un effetto voluto, per cui la mia impressione è che parli di Israele, ma stia parlando all’America. In piena “guerra al terrore” (qualunque cosa voglia dire) e con un paese sconvolto dagli scandali di torture, intercettazioni illegali, campi di concentramento e via discendendo nell’orrore, Spielberg sembra voler dire: “guardate che di qua non si va da nessuna parte, rischiamo di fare la fine di israeliani e palestinesi.” Purtroppo l’impegno politico lascia un pò in disparte il tema della vendetta che con il suo groviglio di ambiguità, contraddizioni, sensi di colpa, tormenti interiori e passioni, si presta a elaborazioni artistiche notevoli (dal “Conte di Montecristo” in poi), che magari sarebbe stato un poco scontato, ma avrebbe aggiunto spessore alla storia.
Personalmente l’ho trovato molto più interessante dal punto di vista storico. La ricostruzione dell’assalto al villaggio olimpico, la pavidità dell’Europa pronta a scendere a patti coi terroristi per quieto vivere (e oggi ne paga il prezzo), l’isolamento e la fredda determinazione di Israele (incarnato in una grandiosa Golda Meir), le ambiguità dei rapporti tra l’OLP e i servizi segreti americani e sovietici nell’ambito della più ampia partita della Guerra Fredda, la strana relazione tra il terrorismo ideologico (RAF, Brigate Rosse) e quello nazionalista (IRA, OLP, ETA), la cialtroneria, allora come oggi, dei leader palestinesi. Tutti pezzi di storia e particolari che i dilettanti della politica nostrani preferiscono ignorare o, peggio, che non hanno mai saputo.
Per uno come Spielberg è una visione della politica e della storia sorprendentemente cupa e cinica, che rende abbastanza incomprensibili le polemiche che hanno investito Munich. Qua non si fa del “relativismo etico”, non si fa “apologia di terrorismo”, non si giustificano gli assassinii mirati. Neppure si fa del pacifismo. Al contrario, si prende pragmaticamente, anche se dolorosamente, atto del fatto che il mondo è una giungla dove vale la legge del più forte. La questione infatti non è tanto se sia morale o giusto, quanto piuttosto se sia utile uccidere il nemico (“Why should I cut my nails? They’ll only grow back again.”). Munich vorrebbe mostrare che così non si può che perpetuare la tragedia, ma ne viene fuori un quadro in cui la tragedia sembra cupamente inevitabile e, alla fine, l’unico che sembra aver capito come girano le cose è Ephraim, il cinico controllore del Mossad interpretato da un eccezionale Geoffrey Rush.
Inutile cercare la giustizia in questo mondo. Come diceva qualcuno, la Giustizia è appannaggio di Dio, privilegio dell’Uomo è la Vendetta.
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