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District 9

Wednesday, October 28th, 2009 by

“Venissero da un altro stato capirei, ma che vogliono? Non sono neanche di questo pianeta…” (un anonimo, intervistato in tv)

District_9_New_onesheet

Il film a primo impatto sembra un documentario di denuncia sociale, alla Michael Moore, con interviste e filmati di repertorio. Sembra, ma non è. Possiamo considerarlo un documentario fantascientifico? Forse… Sicuramente è un interessante esperimento cinematografico che vede il ritorno della fantascienza sui grandi schermi. In altri tempi un film del genere sarebbe stato un normale film drammatico di denuncia; nel 2009 qualcuno ha pensato di farlo diventare un film di fantascienza, metaforico all’ennesima potenza, dallo stile particolare e dai contenuti forti e senza compromessi.

La fantascienza è un genere cinematografico che per definizione avrebbe molte cose da dire. E’ il modo migliore che l’uomo conosce per vivisezionare il presente, pensando al proprio futuro. Quando l’uomo si interroga sul proprio futuro, fa una cosa molto importante. Se non lo fa, è una mancanza grave.
Negli ultimi anni la fantascienza non se l’è passata molto bene. Se dovessi citare qualche film di fantascienza degli ultimi anni meritevole di essere ricordato, farei fatica. Ormai sono di moda le riduzioni cinematografiche da P. Dick, che però spesso sono fatte alla “dick of dog” (mi si passi il brutto gioco di parole), e vanno molto i remake o i sequel di successi degli anni passati. In tutti i casi le idee più nuove che si vedono, e che vengono riprese dal mondo del cinema, risalgono agli anni 60-70. E’ un po’ che meditavo su questo aspetto: non abbiamo più niente di importante da dirci, interrogandoci sul nostro futuro?

Tutto quello che la fantascienza avrebbe da dire, ormai è stato delegato interamente al cinema thriller/horror, o ai cine-fumetti… è un segno dei tempi. Tutti hanno paura e preferiscono andare al cinema a vivisezionare le proprie paure piuttosto che interrogarsi troppo sul futuro, e tutti hanno bisogno di eroi, anche controversi ma ben identificabili, che sappiano sistemare le cose, per cui ecco che altri generi cinematografici si sono preoccupati di venirci a dire qualcosa di importante sul nostro presente al posto della fantascienza.
La fantascienza ha decisamente dormito sonni profondi, fino ad ora…

L’altra sera sono andato a vedere District 9, avendone sentito parlare molto ma senza aspettarmi troppo, e devo dire che le cose mi sono sembrate subito diverse dal solito. Pur essendo un film ben costruito e dalla messinscena molto forte e accattivante, dotato di effetti speciali abbastanza importanti, non era il solito film pieno zeppo di effetti fini a se stessi (che ormai non sono una novità, tutti sono capaci di farli, e per questo non possono più essere il fine ultimo di un film)… era qualcosa con un contenuto, delle idee, una metafora abbastanza forte, dal rigore morale fortissimo. E soprattutto era un film molto inquieto, fin nel midollo. E’ stata una bella sensazione.
Alla fine da un confronto con amici, è apparso evidente che la sensazione fosse comune: District 9 potrebbe essere l’ultimo rantolo di genialità prima della morte definitiva della fantascienza nel cinema contemporaneo, o un precursore per un nuovo inizio. Vedremo tra qualche anno che segno avrà lasciato, se avrà contribuito a lanciare nuove mode e nuovi spunti, o se sarà stato tutto un bluff.

La trama è abbastanza geniale e soprattutto semplice, potrebbe essere presa direttamente da un quotidiano qualsiasi e ci riguarda personalmente, procede in modo lineare e senza intoppi fino a dove si è prefissata di arrivare, come un treno che punta dritto contro un muro. Il risultato può essere doloroso, probabilmente non l’ideale per una serata di svago.

Il film pecca un po’ nello spiegare gli antefatti, e serve del tempo per iniziare ad entrare negli ingranaggi; lo stile finto-documentaristico, che ha un impatto iniziale molto forte, non sempre permette di far capire al 100% tutto quanto. Per fortuna la trama molto lineare e diventa accessibile non appena si è entrati “nel gioco”.

District 9 (US) F

Gli antefatti: siamo negli anni 80 e senza alcun preavviso una astronave gigante, che visivamente richiama i grandi classici della fantascienza degli anni 60-70, approda nei cieli della terra creando enorme scompiglio nella popolazione mondiale.
Stavolta, però, non si ferma sui soliti cieli americani e non ne escono i soliti alieni pronti a combattere e sopraffarci. L’astronave sembra malridotta, perde pezzi, si muove lentamente fino ad arrivare sui cieli di Johannesburg, dove si ferma a fluttuare a centinaia di metri sopra la città. A questo punto appare evidente che gli inattesi visitatori abbiano dei problemi, e poiché nessuna forma di vita sembra uscire dall’astronave e nessun canale di comunicazione viene aperto, il governo Sudafricano e l’ONU decidono di intervenire con una task force di elicotteri.
Quello che viene trovato sull’astronave è aberrante e sconvolgente: un numero imprecisato (si parla di 1 milione) di alieni mostruosi, viscidi, orribili, vengono trovati in uno stato di denutrizione e sporcizia totale, allo sbando, spossati, in piena anarchia e senza nessuna guida all’interno dell’astronave. Una ipotesi è che la perdita del modulo di comando, staccatosi dall’astronave giorni prima, abbia causato la morte di tutti gli ufficiali di comando. Altra ipotesi è che si siano suicidati per motivi ignoti.
Scatta l’emergenza para-umanitaria, gli alieni sono schedati, gli viene dato un nome, e sono trasportati sulla terra in un centro di “prima accoglienza” (eh già, si chiama proprio così. E’ da verificare se si tratti di una “trovata politica birichina” del doppiaggio comunista italiano o se sia originale).

Venti anni dopo, siamo all’inizio del film: gli alieni stanno sempre lì, parcheggiati in quella che è diventata una baraccopoli abitata da oltre 2 milioni e mezzo di alieni (che nel frattempo hanno cominciato a fare uova e a moltiplicarsi a dismisura), un ghetto chiamato “Distretto 9” (ogni riferimento al Distretto 6 realmente esistito a Johannesburg è puramente voluto).
Gli alieni non si sono integrati, non rispettano la legge umana, e anche se la loro inquietante lingua viene ormai capita dagli umani rendendo possibile una rudimentale comunicazione, gli uomini non gradiscono la presenza di quelli che chiamano con disprezzo “i gamberoni”.

Nel Distretto 9 regnano caos e anarchia. I gamberoni sono sfruttati dalla malavita locale per compiere rapine in cambio di scatolette di cibo per gatti (di cui gli alieni sono ghiotti) e dalla MNU, una multinazionale che gestisce il Distretto 9 e che detiene i diritti di sfruttamento della tecnologia alinea. Vi sembra assomigliare a qualcosa, la sigla MNU? Infatti, vi sembra bene… è diventata una multinazionale a scopo di lucro. Le armi aliene, in particolar modo, sono molto avanzate e potenti e per questo innescano le mire più abbiette di gruppi industriali e dei trafficanti di armi locali. Purtroppo (o per fortuna) queste armi, confiscate dalla MNU, non sono utilizzabili dagli umani perché funzionano solo se interagiscono con DNA alieno.

Ogni tanto i gamberoni scappano dal ghetto, facendo incursioni in città, dove si scontrano con le autorità umane e gli abitanti del luogo. Questi scontri portano altro risentimento e xenofobia, in una spirale senza fine. Arriva quindi l’inevitabile momento di spostarli lontano dalla città, con le buone o con le cattive, in un posto migliore, chiuso e ben recintato, dove la loro incolumità possa essere preservata meglio e dove le condizioni igieniche per i loro figli saranno migliori. Ma gli alieni non vogliono andarsene, non vogliono essere spostati o sfrattati, loro vorrebbero solo tornare a casa…

Per lo sgombero del Distretto 9 viene nominato capo squadra Wikus Van De Merwe, genero del capo della MNU. Wilkus è il classico ragazzotto ignorante, rozzo, insensibile, che viene dalla società bene, spinto da un forte senso del dovere. Dovendo scegliere da che parte stare, tra alieni oggettivamente repellenti ed esseri umani, il nostro istinto ci porta ad identificarci con quello che ci assomiglia di più (Wikus), e a ridere delle sue sopraffazioni inconsapevoli. Siamo portati quasi a giustificarlo in tutto, anche quando per gioco dà fuoco a uova aliene, perché tutto sommato è figlio della società marcia che gli sta attorno, quindi è giustificabile.

Il film, tuttavia, non si vuole limitare ad una semplice denuncia diretta del nostro razzismo inconscio. Il gioco all’inizio sembra molto semplice, ma il progetto è destinato a spingersi un bel po’ più in là.

Durante un sopralluogo ad una baracca in cui si sospetta ci siano attività aliene illegali, Wikus si rompe un braccio ed ingerisce per errore uno strano fluido nero. A seguito di disturbi sempre più fastidiosi, Wikus viene trasferito nell’ospedale militare, dove il medico di guarda gli toglie il gesso al braccio per scoprire che il braccio si sta trasformando in una viscida e tentacolare zampa aliena… dopo accurati esami, il responso è: mutazione genetica irreversibile.
A questo punto si scatena il delirio. Vikus è costretto a subire esperimenti brutali, per capire come sia potuta avvenire la mutazione e se possa essere controllabile e replicabile su altri umani, per poter sfruttare le armi aliene. La fuga diventa inevitabile nel momento in cui i vertici militari decidono di smembrarlo per scoprire qualcosa di più. Dove nascondersi? Ovviamente nel Distretto 9.

La mutazione genetica, progressiva ed inarrestabile, è sinceramente disgustosa: i riferimenti a “La Mosca” sono evidentissimi, voluti ed altrettanto fastidiosi (vomito nero, unghie che si strappano, denti che cadono, squame che appaiono da sotto la pelle, occhi che si spappolano, putrefazione… c’è un intero repertorio di immagini che si rifà palesemente al film di Cronemberg).

A questo punto il film scopre un po’ le carte, pur tenendo le migliori solo per il finale. La metafora si evidenzia un pochino: i mostri siamo noi, nonostante le apparenze, e dovremmo avere così schifo di noi stessi da aver paura a guardarci allo specchio. Pian piano la mutazione ci porterà ad assomigliare agli alieni, per scoprire che da qualche parte in mezzo allo schifo e ai tentacoli ci sono occhi pieni di nostalgia per casa. Niente a che fare con ET, comunque (e per fortuna)…

Il finale raggiunge l’apice, esplodendoci in faccia con una singola inquadratura che è la sintesi poetica, distillata e concentrata, di tutto… Tutto quello che “Io sono leggenda” non ha avuto il coraggio di essere, per manifesta imbecillità dei suoi produttori, lo si può trovare qui.

District 9, dunque, è fantascienza che prende spunto da stili e temi non usuali per la fantascienza, che si rifanno al mondo dell’horror, all’attualità, e ad alcuni classici della fantascienza o del cinema drammatico realista, girato con camera a spalla in “guerriglia style”.

cartonato_D9

Dal punto di vista stilistico, il film arriva a costruire qualcosa di abbastanza originale nell’insieme, e che sta in piedi per due ore senza risultare pesante. Fonde finti documentari, finti notiziari televisivi, sequenze cinematografiche classiche con commento musicale, frenetici e nervosi cambi di ritmo, riprese fatte col cellulare, punti di vista di videocamere a circuito chiuso, fino a giungere ad uno stile che nel complesso si preoccupa di raccontare in modo lineare gli eventi, ma non si cura di scegliere quali saranno le forme visive che dovranno raccontare una scena di azione, piuttosto che un momento di passaggio della trama. Le videocamere amatoriali come quelle professionali, i telefonini come le videocamere di sicurezza, tutto contribuisce al racconto della realtà. Tutto fa brodo, insomma. Volendo, ci si può individuare un preciso riferimento alla moderna società dell’immagine, che è pronta a triturare tutto dentro i suoi pixel, di qualunque apparecchio facciano parte.

Non so se possa essere un record per un film di fantascienza, ma nemmeno per un istante si riesce a parteggiare per un essere umano. O sono stupidi, o sono farabutti, o sono incredibilmente meschini, anche quando si scontrano tra di loro e sarebbe opportuno parteggiare per quelli “meno cattivi” o “più simpatici”. Gli alieni, con molta correttezza, non sono tutti dei santi (i farabutti li hanno anche loro), ma gli esseri umani proprio no. Anche questo modo di essere “politically scorrect” forse diventerà una nuova moda cinematografica, ma nel complesso alla prima è venuto proprio bene.

Il regista? Sudafricano, esordiente nel mondo del cinema, illuminato da un produttore intelligente (Peter Jackson), si è già fatto riconoscere e premiare più volte nel mondo della pubblicità.
Quando e come? Preparatevi a ridere… con questo, ad esempio.

Drag Me To Hell

Monday, September 21st, 2009 by

Quando hanno intervistato Sam Raimi, chiedendogli come mai, dopo l’enorme successo della serie di Spiderman, con critica e pubblico concordi nel riconoscere la sua bravura anche in film spietatamente commerciali, ha pensato di tornare ad auto-produrre un film così piccolo e di nicchia, lui ha risposto: “perché avevo voglia di tornare a divertirmi, senza essere asfissiato da produzioni elefantiache, e senza spendere nulla”…

Purtroppo il grande pubblico conosce Sam Raimi solo per la regia di Spiderman e poco altro, quindi le parole dell’intervista avranno detto poco o nulla… ma a molti fan, che conoscevano i precedenti del regista, prospettare un ritorno all’horror “a-modo-suo” ha fatto venire molta bava alla bocca (bava verde da indemoniati, probabilmente).
L’attesa non è stata riposta invano, a mio parere il nuovo horror di Sam Raimi mantiene tutto quello che prometteva, soprattutto ai suoi fan della prima ora. Drag Me To Hell segna un ritorno agli esordi in tutti i sensi, sia per il budget impiegato, sia per i mezzi utilizzati, poco sofisticati ma allo stesso tempo efficaci.

L’esordio di Sam Raimi alla regia è stato uno dei più incredibili: con poche migliaia di dollari ha confezionato uno dei più clamorosi b-movie horror della storia del cinema (per la cronaca, “Evil Dead” in lingua originale, conosciuto come “La Casa” in Italia, perché anche nei b-movie abbiamo dimostrato in quegli anni un provincialismo veramente bieco). Realizzato letteralmente nei ritagli di tempo, partendo da una idea scritta davanti ad una bottiglia di vino con gli amici, e girato con gli stessi amici per un anno solo nei weekend e con mezzi di fortuna, ha ottenuto un risultato così incisivo, anche nello sviluppo delle tecniche, che in pochissimo tempo Sam Raimi è diventato uno dei registi più acclamati.
Anche perché, negli anni, ha dimostrato di saper dirigere con buoni risultati sia film d’avventura, che thriller psicologici, western, fino a film comico-demenziali pervasi da macabra ironia.

In Drag Me To Hell si vede molto degli esordi di Sam Raimi, dicevo. Innanzitutto si vede l’incredibile mistura di umorismo nero, ironia spietatissima che non guarda in faccia a nessuno (nemmeno ad una povera vecchietta con la dentiera e l’occhio di vetro), e pura cattiveria nei confronti dello spettatore, che si traduce in trovate cinematografiche violente, soprattutto per le coronarie di chi guarda. In definitiva, ecco un horror divertente e spassoso, di quelli che riescono a fare una paura fottuta, provocare un sano disgusto, ma anche strappare qualche macabra risata quando meno ce lo si aspetterebbe. Insomma, un horror tipicamente anni ’80 dallo stile molto retrò (i titoli di testa sono da b-movie gotico, fatto e finito), che risulta quasi innovativo in questi anni 2000, che hanno visto il genere horror appiattirsi irrimediabilmente verso uno stile espressionista iper-violento e praticamente privo di ironia, alla lunga molto scontato e ripetitivo.

Lo splatter è stato inventato negli anni ‘70, come sottogenere da b-movie con una forte carica provocatrice che andava contro certi tabù dell’epoca, ed era un genere alienante, inquietante ed asfissiante (vedere “Non aprite quella Porta” per credere).
Lo splatter è stato completamente re-inventato e ribaltato negli anni ’80, quando è stato investito dalla sacra luce dell’ironia proprio dallo zio Sam. La visualizzazione violenta e quasi “cartoonesca” del sangue l’ha inventata lui (vedere “Evil Dead 2” per ripassare questi concetti). Il ridere di uno schizzo di sangue o un occhio che esce dall’orbita… sono cose che ha inventato lui. Ridere della morte, ridere della distruzione del corpo, decontestualizzare così tanto la violenza, la paura e il terrore da renderli innocui, riuscendo nello stesso tempo a “disturbare”, dare fastidio, inquietare, non far dormire tranquilli… Tutto questo si è evoluto negli anni, ed è servito da riferimento ad altri maestri del genere e non solo, ma si è anche perso nel tempo, perché negli anni 2000 la violenza dei film horror non ha più nulla di ironico o “cartoonesco”, non ci si può più permettere di riderci sopra senza sentirsi come minimo in colpa, e l’obiettivo pare essere solo creare disgusto, senza nemmeno più preoccuparsi di dire qualcosa.

Per questo posso dire che, sì, c’è da essere contenti del ritorno all’horror ironico di Sam Raimi.

Tra l’altro la storia raccontata, ripescata da un copione vecchio di 10 anni scritto a quattro mani con il fratello, è di una attualità incredibile. Viene il sospetto che sia stata scelta apposta, per una certa finalità moralizzatrice. Nonostante l’horror venga spesso additato dagli stupidi come la prima causa dei mali del mondo, spesso ha una moralità molto forte: essendo in grado di suscitare emozioni intense, anche l’insegnamento che può dare sarà intenso…

In questo caso la nostra eroina (?) Christine Brown lavora in banca e spaccia mutui senza ritegno. E’ parte integrante di un mondo senza cuore e sentimenti, quindi è già condannata, in un certo senso predestinata e votata al male. Un giorno nega un mutuo ad una povera vecchia bavosa con l’occhio di vetro, facendo tacere la sua coscienza per compiacere il capo in vista di una promozione, il giorno dopo se la dovrà vedere con un demone che vuole papparsi la sua anima ad ogni costo.
Pare non esserci possibilità di redenzione, in un mondo pieno di gente che ogni giorno fa tacere la propria coscienza, permettendo a disuguaglianze e ingiustizie di perpetrarsi silenziosamente. Qualcuno dovrà pagare per tutti, e a mezzanotte arriveranno puntuali i demoni ad azzannare un bel mutuo subprime, spargendo industriali quantità di sangue e vomito, e liberando il mondo dal male vero. In un certo senso, il risultato è quasi liberatorio, se fosse così semplice da realizzare.

L’incipit del film è accattivante, il finale è intenso ed improvviso nella sua velocità e brutalità. In mezzo ci sono tutte le regole del genere: c’è quello che serve per far saltare sulla poltrona (compreso il crudele utilizzo delle steady-cam, che Sam Raimi ha affinato negli anni, e che proietta senza preavviso lo spettatore contro oggetti e facce mostruose, senza quasi avere coscienza di cosa stia succedendo) e quello che serve per disgustare tutti coloro che hanno la pessima abitudine di mangiarsi i popcorn al cinema, ma è tutto così sopra la righe da essere completamente fuori dai canoni del genere, pur rispettandoli. Nonostante la commissione censura ritenga sempre più spesso di “punire” la violenza di certi film horror con un VM 14 o 18, non ha ritenuto di inserire alcun divieto per questo film. Forse questo ci può indicare una certa presenza di classe?
No, non credo sia solo classe… Nella scena clou, quella più spaventosa (e lo è), in cui la medium viene posseduta dal demone e inizia a succedere di tutto e di più, è fantastico trovare un caprone indemoniato che ruota la testa di 360 gradi e urla alla protagonista: “mi hai inganna-a-a-a-to, maledetta putta-a-a-a-na!”. E’ liberatorio ridere in un momento così…

Nota 1: la Ford gialla del ’74 che appare nel film, è l’auto di Sam Raimi, che appare in tutti i suoi film, Spiderman compresi. In “Evil Dead” era l’auto dei 6 ragazzi protagonisti che arrivavano alla baracca nel bosco. Qui è l’auto della vecchia zingara. Lui la considera il suo portafortuna, visto il successo che gli ha portato.

Nota 2: Da tempo si vocifera un ritorno di Raimi alla saga de “La Casa”, quella vera (quindi tralasciando tutti i film apocrifi di produzione italiana che sono seguiti al secondo capitolo, e che nulla hanno a che fare con la storia). Sam Raimi ha detto che nel tempo libero sta preparando un abbozzo di sceneggiatura, ma che ora è troppo impegnato per pensarci seriamente. Siccome si vocifera che oltre a Spiderman 4, attualmente in lavorazione, sia previsto anche uno Spiderman 5, dobbiamo forse augurarci che Spiderman 4 sia un flop? I film della serie Spiderman non sono male, ma i fan vogliono vedere il 4 capitolo della serie “Evil Dead”, e che diavolo!

Tutto quello che avresto voluto sapere…

Friday, May 29th, 2009 by

Devo ammettere che non sono mai stato un fan sfegatato di Woody Allen. Mi piace tendenzialmente per le singole battute, che spesso (se non sempre) mostrano l’intelligenza enorme che ci sta dietro, e spesso dicono delle verità incontrovertibili. E poi sono disarmanti, battute disarmanti.
Non sono mai stato un fan dei suoi film, forse più per un semplice disinteresse superficiale, che per una scelta consapevole. A dirla tutta il mio è forse un caso atipico, perchè ho conosciuto Woody Allen di recente, nei suoi film che sicuramente non sono campioni di risata, ma al contrario mostrano uno spirito ben più drammatico.

Partendo da lì sono andato a ritroso, e qualche settimana fa, in una specie di serata in cui in compagnia di amici ho guardato due grandi classici della risata (uno quello di cui parlo, l’altro l’indimenticabile “Frankenstein Junior”), mi è capitato di vedere “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere“. Ironia della sorte, qualche giorno fa mi sono imbattuto in un clip segnalato da un altro conoscente, proprio tratto da questo film.

Fare una recensione del film è impossibile, è sufficiente dire che film così non li fa più nessuno, o forse non li ha mai fatti nessuno. Perchè riesce a dire tutto quello che c’è da dire, senza essere eccessivo, volgare e gratuito, ma essendo comunque molto molto kitsch. E spesso così idiota da rasentare l’incredibile… impossibile non riderci su.

E’ difficile da spiegare… Più di mille parole, valgono 10 minuti, da vedere (e rivedere) assolutamente.

Franklyn

Sunday, April 19th, 2009 by

Un rompicapo da risolvere.

Esiste il genere cinematografico “film puzzle”?
Se non c’è bisognerebbe inventarlo. Io sono un po’ di parte, perché questo tipo di film in genere mi piace moltissimo, se non altro perché tende a prendere storie anche banali da angolazioni completamente inaspettate, con il risultato di essere più stimolante di molti altri film che seguono i canoni classici.

Che cosa è un film puzzle? Beh, è un film che si presenta innanzitutto come un gioco, un rompicapo, un puzzle da risolvere, quindi incasinato abbastanza (e soprattutto volutamente) quel tanto che basta da far mettere in moto i neuroni, volenti o nolenti.
E’ un metodo un po’ subdolo ma efficace. Infatti al cinema non sempre ci si va con l’intento di far funzionare il cervello, o perché si sceglie un film che non ha questa pretesa, o perché non si ha voglia di farlo.
Ma coi “film puzzle” la tecnica del menefreghismo non funziona, perché o ci si sforza di capire il film, non dal punto di vista tematico, ma innanzitutto dal punto di vista logico, o tanto vale uscire dopo 10 minuti buttando via i soldi del biglietto.

Di un paio di “film puzzle” ho già parlato in questo blog: ad esempio “The Prestige” o “eXistenZ” potrebbero essere classificati come tali. Ovviamente tutti i thriller sono un po’ un “gioco degli inganni”, ma qui si sta parlando di film che appositamente e coscientemente cercano di scombinare le carte oltre misura. I due film citati, ognuno secondo i suoi canoni, se lo pongono quasi come obiettivo principale, quello di diventare un “gioco” tra spettatore e regista, facendo passare in secondo piano la trattazione di temi più o meno elaborati.
In realtà, come ho già detto, non è un approccio così sbagliato. Infatti, già che si spinge con la forza lo spettatore a dover pensare per sbrigliare la matassa del film, da lì a meditare anche sulle tematiche offerte il passo è breve. Anzi, spesso risulta essere un metodo più efficace e stimolante, perché finito il film, quando non tutte le tessere sono andate a posto, spesso si incomincia una discussione tra chi ha capito un pezzo di film, e chi ne ha capito un altro, ed è un modo come un altro per “portarsi a casa” il film, con tutto quello che vuole dirci.
I film più classici lo fanno stimolando il cuore e le emozioni, questi film lo fanno stimolando il cervello.

Esistono esempi lampanti ed illustri di film che io classificherei innanzitutto come “film puzzle” e solo in seguito come “thriller” o “fantascienza”. Spero prima o poi di riuscire a parlarne in questo blog: “Memento” ad esempio merita di essere citato tra i capostipite che hanno lanciato la moda, negli ultimi anni; ed ovviamente anche film come “Donnie Darko” o “l’Uomo Senza Sonno”, rispondono perfettamente al genere. E non necessariamente si tratta di film thriller: io nella categoria ci metterei anche film come “Sliding Doors” tanto per dirne uno.

I “film puzzle” in genere sono tutti progetti originali, praticamente non si rifanno mai a storie già scritte, romanzi o fumetti. Vengono scritti appositamente per essere un gioco. Spesso sono i registi alla loro prima prova, a cimentarsi in questi film, e spesso lo fanno per cercare di sottolineare la loro bravura. Dopodichè passano a dedicarsi a film dalla struttura più “classica”.
Che il regista debba essere bravo è ovvio, in questi film tutto deve funzionare, tutto deve avere un senso. Ci sono casi clamorosi (Donnie Darko) dove quasi ogni inquadratura sembra acquisire un senso o fornire un indizio per arrivare alla fine. Perdersi è facile, ma il fatto è accentuato spesso da clamorosi quanto voluti buchi di sceneggiatura, che sono messi lì apposta per non spiegare tutto. Se non si spiega tutto, si accentua lo smarrimento finale, e soprattutto il fatto che ciascuno potrà arrivare ad una soluzione diversa, che non sarà mai spiegata (come in “The Prestige”, ad esempio, o lo stesso “Donnie Darko”).
Altre volte si adottano tecniche particolari di fotografia o montaggio, che fanno lo sporco lavoro di scombinare le carte (come in “Memento”), mentre altre volte è lo stesso tema attorno a cui si costruisce il film a essere fonte naturale di confusione (ad esempio il tema delle realtà parallele, trattato in “eXistenZ”, o temi che riguardano la pazzia trattati in alcuni thriller). E infine ci può essere uno stile visionario, che può scombinare parecchio le carte, arricchendo il film di divagazioni quasi superflue, e trasformando un film lineare in una specie di percorso ad ostacoli (citerei “L’esercito delle 12 Scimmie” che pur non essendo un vero film rompicapo, molto gli si avvicina per lo stile eccezionalmente visionario).

Questi film in genere non amano farsi pubblicità. O meglio, sanno che se la faranno nel tempo. Spesso adottano tecniche di marketing molto alternative, o si basano sul passaparola. In alcuni casi addirittura riescono a farsi una fama ancora prima di uscire nei cinema, grazie al web. “Donnie Darko” è riuscito ad uscire nei cinema dopo due anni dalla sua produzione (più per sfighe varie, che per scelte volute), essendo già film di culto, nonostante non fosse stato visto praticamente da nessuno, se non per spezzoni che giravano in rete, e grazie ad un sito ufficiale costruito ad hoc, e a finti libri messi in rete.

Perché tutta questa introduzione?
Perché ieri sera sono tornato al cinema dopo parecchio tempo, e poiché i film a disposizione non ci sembravano granchè, abbiamo scelto un film sconosciuto, di cui mai nessuno aveva sentito parlare o aveva visto un trailer, e con la sala più vuota delle altre: Franklyn. Ovviamente lo abbiamo scelto per la trama assurda ed incoerente che sembrava avere. Una trama che ha solleticato la curiosità.

Ho scoperto oggi che il regista Mc Morrow è ovviamente un esordiente, e che la storia è del tutto originale, scritta apposta per il film dal registastesso, pur avendo parecchi riferimenti più o meno palesi presi dal mondo dei fumetti, alcuni rimandi da P. Dick, oltre che da film come da “V per Vendetta”, “Dark City”, o “L’uomo senza Sonno”.

La vicenda ruota attorno a 4 personaggi:
ESSER (Bernard Hill) è un padre che ha perso il figlio, e lo sta cercando per le strade di Londra. Mostra la sua foto a tutti quelli che incontra, negli ospedali, nei centri di cura per tossicodipendenti, nei ricoveri per senzatetto. Alcuni sembrano riconoscerlo, ma poi di fatto Esser non riesce mai ad ottenere informazioni definitive su come ritrovare il figlio perduto. La sua foto, in verità, non viene mostrata, e non viene spiegato il motivo che ha portato alla separazione tra padre e figlio.
MILO (Sam Riley) abita a Londra, ed è stato mollato dalla sua ragazza appena due giorni prima del matrimonio. Girovagando per la città senza metà, resta attratto da un figura femminile coi capelli rossi. Comincia a pedinarla, per scoprire che si tratta di una sua vecchia amica di infanzia, di cui era infatuato quando erano piccoli. Un giorno, quasi presagendo un nuovo colpo di fulmine, prende il coraggio a due mani e la invita ad uscire a cena.
EMILIA (Eva Green) vive a Londra, è una studentessa di arte cinematografica con un rapporto conflittuale con la madre, e un padre morto quando era piccola. Emilia vive sola in una casa dall’arredamento dark, e tenta il suicidio una volta a settimana, riprendendo le sue performance con alcune videocamere sparse per casa. Salvata ogni volta, cerca di spacciare i clip come filmati artistici presso il suo insegnante di arte cinematografica. Inoltre, a tempo perso, ama parlare con l’immagine di se stessa, ripresa dalle videocamere di casa e proiettata sul televisore.
Infine, ma non ultimo, c’è J. PRIEST (Ryan Philippe). Priest vive a Meanwhile, Citta di Mezzo, una città tetra, gotica e fantascientifica allo stesso tempo, dove il sole non spunta mai. E’ governata da un dittatore che riesce a mantenere il controllo grazie al fanatismo religioso. Per vivere a Meanwhile bisogna essere un seguace di una delle religioni ufficiali accettate dal regime. C’è in realtà l’imbarazzo della scelta, le religioni registrate al catasto sono decine e molte sono quelle protette dal governo. Priest, per ironia, è l’unico ateo presente in città, e per questo è perseguitato dalla polizia ecclesiastica.
Per vivere fa l’investigatore privato, entrando spesso in contatto con la feccia della società. Per questo di notte ama infilarsi una maschera di cuoio per fare il giustiziere mascherato. La sua missione attuale è quella di trovare l’Individuo, capo di una setta religiosa protetta dal governo che rapisce e sacrifica bambine al suo dio. Il problema è che l’ultima vittima, una bambina di 10 anni, era una persona cara a J. Priest.

Fino a qui, più o meno, il modo in cui era spiegata la trama. Scegliendo a caso, ci siamo imbattuti a tutti gli effetti in un film “rompicapo” da risolvere. Un film che, procedendo parallelamente nelle 4 storie, riesce a rilanciarsi ogni 10 minuti pur senza rivelare sempre tutto. Solo quello che serve per andare avanti.
Il risultato non è definibile come un capolavoro, almeno non al pari di altri film citati in precedenza, però è comunque un gioco riuscito e soprattutto architettato come si deve.
Innanzitutto perché è dotato di un finale che riesce ad intrecciare tutte le vicende parallele (incredibile ma vero, nonostante le premesse, mantiene la promessa!) in modo non troppo pretestuoso ma stimolante, pur senza rendere tutto esplicito e lasciando un sacco di dettagli in sospeso. Inoltre il film è ricco di indizi sparsi qua e là, a volte solo dettagli accennati come è giusto che sia, che dovrebbero servire a mettere alcuni tasselli secondari a posto, ma non necessariamente con lo stesso risultato per tutti.
Nella finzione cinematografiche, le cose possono essere vere o false, allo stesso tempo…

Chi è in realtà il custode della cappella dell’ospedale, uno dei pochi che sembra riconoscere il figlio di Peter, e che dà consigli utili ad Emilia, quando viene ricoverata dopo l’ennesimo suicidio non riuscito? Chi è il personaggio misterioso che sembra conoscere tutti gli altri personaggi e che gira per Londra segnandosi il loro nome su un taccuino, seguito da un numero? Ed Emilia è una artista eclettica e folle, che gira clip di se stessa in modo tale da “poterci parlare insieme”, o riesce a parlare davvero con il televisore? (tra l’altro le sequenze che la riguardano meriterebbero una menzione a parte, perché sono efficaci e ben riuscite. Un tocco visionario non da poco).
E soprattutto, chi è Franklyn?
Eh già, perché il personaggio che dà il nome al film, praticamente non appare mai (forse, ma ci sono sospetti), se non per una fugace apparizione su una targhetta di un citofono. Notevole esempio di recitazione.

I temi trattati dal film sono del tutto secondari rispetto al gioco della trama. Però non sono da sottovalutare, perché rendono il film interessante anche per gli spunti un po’ anarchici, visionari e politicamente scorretti che può offrire. Uno su tutti la religione additata come mezzo di controllo dei popoli.

“La religione è necessaria per chi crede, nociva per chi non crede, utile per chi governa” (J. Priest)

“Se dio c’è ed è buono, perché permette che venga fatto del male ad una bambina di 10 anni? Forse dio non c’è. Oppure se c’è, non è buono come si crede. O ancora, se dio c’è ed è buono, allora non può fare niente per impedire il male. Ed allora perché chiamarlo dio?” (J. Priest)

Il tema non è trattato solo in modo serioso. A dir la verità viene anche “sbeffeggiato” con ironia, cosa di cui a dir la verità il film è abbastanza ricco, nonostante l’ambientazione sia di ben altro tipo.
Tra le religioni accreditate di Meanwhile c’è, ad esempio, la Chiesa delle Manicuriste del Settimo Giorno, il cui dio cambia capigliatura ad ogni luna nuova. O ancora una setta il cui fondatore, con il tipico tono del predicatore, va in giro per le strade a leggere e declamare… il libretto di istruzioni della lavatrice! In effetti a volte per non far uscire tutto colorato in rosa o in azzurro, ci vuole un atto di fede.

Insomma, non so se il film resisterà per molto nei cinema, e se il passaparola sarà efficace (gli spettatori presenti in sala ieri, di cui praticamente nessun adolescente brufoloso, sembravano tutti abbastanza soddisfatti) e non lo metterei tra i capolavori da ricordare, ma magari una visione privata se la merita, per una serata diversa dal solito…

Scary-Poppins e i trailer imbroglioni

Wednesday, March 11th, 2009 by

Un amico mi ha segnalato, su Tutubo, l’esistenza di un trailer un po’ particolare, quello di un film horror che non esiste, ma molto molto credibile.

Al di là del divertimento che suscita (diciamo che si tratta probabilmente di humor britannico), sarebbe interessante soffermarsi anche un attimo a meditare sulla validità dei trailer che quotidianamente vediamo in tv o nei cinema, e che di fatto non perdono occasione per raccontarci un film diverso da quello che vedremo in sala.

E’ interessante meditare sul fatto che i trailer ormai si sono trasformati in pubblicità vere e proprie, e quindi ne adottano le stesse bugiarde tecniche, con l’intento di portare nei cinema ipotetici spettatori che forse altrimenti non vedrebbero mai un film. Ad esempio possono pubblicizzare un film romantico, magari mettendo in risalto aspetti secondari che potrebbero portare nei cinema non solo gli amanti del genere romantico (che già ci vanno per i cavoli loro), ma anche gli amanti della commedia, dei film comici, o dei polizieschi?
Fino al caso limite di pubblicizzare come thriller un film da bambini? Beh, il montaggio e la musica fanno miracoli, da soli possono trasformare un film, figuriamoci che cosa possono fare in un trailer… se pur con intento ironico, lo avete visto, no?